19 gennaio 2018
APPUNTI SU UN ANNO DI TRUMP PER GAZZETTA
MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA –
Il primo anno della presidenza Trump è stato accidentato a livello internazionale (destabilizzazione dei rapporti con gli alleati in Europa e Asia, mentre nazionalismo e ostilità al free trade e alle politiche di tutela ambientale hanno alimentato ondate di antiamericanismo). All’interno, poi, The Donald ha provocato terremoti nei rapporti istituzionali: dallo scontro coi giudici e l’Fbi agli attacchi alla libertà di stampa. Se, nonostante tutto, l’immobiliarista che ha conquistato la Casa Bianca continua a sentirsi forte, ciò non dipende solo dalla tenuta del suo zoccolo duro elettorale, gli ultrà del Trumpismo. Conta molto anche la buona salute dell’economia. Non solo la Borsa che sale: può essere una cosa effimera, anche se la crescita è stata continua fin dalla sua elezione. Così Trump, in cerca di rivincite, oggi mette le catastrofi allora previste da Paul Krugman sul New York Times in cima alla sua hit parade delle fake news (sebbene quelle non fossero notizie ma commenti di un economista). C’è di più: nel primo anno di Trump si è registrata una forte crescita dei posti di lavoro nell’industria manifatturiera, un settore che gli economisti danno in via di ridimensionamento per effetto, più che della globalizzazione, dell’automazione delle produzioni. E qui le cose andranno bene anche nel 2018. Come mai? Certo, l’indebolimento del dollaro (–9% medio nel 2017) ha favorito l’export Usa. Certo, l’industria non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi del 2008: i dipendenti sono 12,5 milioni, uno in meno rispetto al 2007. Ma nel 2015 la ripresa aveva perso slancio e nel 2016 (fine era Obama) l’occupazione manifatturiera era addirittura calata, mentre l’anno scorso sono stati creati 200 mila posti industriali in più. E ora la riforma fiscale che riduce le imposte sulle imprese spinge i grandi gruppi, da Chrysler-Fiat ad Apple, a reinvestire negli Usa gli utili realizzati all’estero. Apple farà affluire in America oltre 250 miliardi, ne pagherà 38 di tasse e ne investirà altri 30 creando 20 mila nuovi posti di lavoro. Marchionne ne investe uno per trasferire la produzione di pick up Ram dal Messico al Michigan (2.500 posti in più). Ci sono anche le aziende che licenziano dopo aver promesso a Trumpdi non farlo, e cali di produttività che giustificano dubbi sulla solidità della ripresa, ma i numeri saranno positivi per almeno 1-2 anni consentendo a Trump di cantare vittoria davanti all’elettore-lavoratore Usa.
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PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA –
Un anno vissuto pericolosamente, inclusa l’ultima accusa pubblicata ieri dal «Wall Street Journal», secondo cui prima delle elezioni del 2016 l’avvocato di Trump, Michael Cohen, aveva pagato 130.000 dollari alla pornostar Stormy Daniels, per comprare il suo silenzio ed evitare che raccontasse la relazione avuta dieci anni prima con Donald, allora già sposato con Melania. I sondaggi dicono che l’approvazione del presidente oscilla sul 40% (per il Pew 36%), e quando le cose vanno così il suo partito perde in media 40 seggi alle elezioni midterm. Questi però sono gli stessi sondaggi che nel 2016 avevano mancato il suo fenomeno. I critici, liberal ma anche repubblicani, dicono che Trump si sta alienando il Paese. Dall’economia all’immigrazione, incluse le dichiarazioni razziste di giovedì su Haiti, non ha neppure tentato di diventare il presidente di tutti. Sta solo facendo ciò che la sua base voleva, perché è convinto che se riuscirà a tenerla unita, verrà confermato nel 2020. L’importante è evitare le trappole denunciate dall’ex consigliere Bannon, tipo un accordo al ribasso con i democratici sull’immigrazione, o l’abbraccio coi «globalisti» in economia, che invece liberal ed establishment repubblicano incoraggiano, nella speranza di separarlo dai suoi elettori.
La sfida nel 2018 sarà tutta proiettata sul voto midterm. Trump pensa di poterlo vincere, grazie alla crescita favorita dalla sua riforma fiscale, e la fermezza su immigrazione e politica estera. L’elezione grave che ha perso, quella in Alabama, è dipesa dalle scelte estremistiche e dalla guerra civile scatenata da Bannon nel Gop, ma il suo ex consigliere ormai è fuori. Se il presidente supererà l’esame di novembre, si proietterà verso la rielezione nel 2020. Se perderà vedrà paralizzata la sua agenda, e verrà esposto al rischio dell’impeachment per il «Russiagate», che per scattare richiede la maggioranza democratica alla Camera.
Le tasse ai minimi per aiutare le imprese
La riforma fiscale è il risultato più importante ottenuto da Trump nel primo anno di governo, e anche quello a cui teneva davvero. Molto più rilevante della cancellazione della riforma sanitaria Obamacare, fallita, che era soprattutto una concessione alle pressioni del Partito repubblicano. Agli amici di cui si fida, il capo della Casa Bianca ha sempre ripetuto che la sua presidenza si giocherà su due fattori: economia e lavoro. Il risentimento che lo ha fatto vincere, anche se aveva radici soprattutto identitarie e culturali, è stato incendiato dalla crisi economica. Trump è convinto che se farà salire la crescita verso il 4%, abbatterà la disoccupazione, e riporterà il lavoro in Stati chiave della rust belt come Michigan, Ohio e Pennsylvania, nel 2020 rivincerà allargando la propria base. La riforma fiscale serve a questo, oltre a soddisfare le esigenze dei suoi ricchi finanziatori. Non aiuta molto la classe media e bassa, ma promette di sollevarla secondo l’antica teoria reaganiana dello «sgocciolamento»: se le imprese fioriranno, i benefici raggiungeranno tutti. Nel 2018 quindi si concentrerà sulla ricostruzione delle infrastrutture, un piano che i democratici avranno difficoltà ad osteggiare, e promette investimenti e crescita.
Tra sanzioni e tregue l’ultimatum sull’Iran
Gli Usa resteranno nell’accordo nucleare con l’Iran, per altri 120 giorni. Ma è l’ultima volta. Se nel frattempo gli europei non accetteranno di modificare l’intesa, rendendo permanenti i limiti all’arricchimento dell’uranio, e includendo il programma missilistico nelle operazioni sanzionabili, Trump la denuncerà. Intanto nuove misure verranno imposte contro 14 individui, tra cui il capo del sistema giudiziario Larijani, per mettere pressione sul regime. È la linea annunciata ieri da Washington.
La politica estera in genere non è il tema che determina il voto degli americani, ma poi è quello su cui i presidenti fanno più differenza. È il caso di Trump, che oltre a scuotere l’accordo con l’Iran, ha cancellato quello sul clima, sfidato Kim sul nucleare, riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, rivisto le aperture a Cuba, accelerato l’offensiva contro l’Isis, ignorato la minaccia della Russia risorgente, ingaggiato e criticato la Cina. I consiglieri dicono che «America first» non significa America sola, ma l’isolamento è palpabile. Trump pensa che l’aggressività rimodellerà il Medio Oriente, fermerà Kim, imbriglierà Putin, rifarà grande l’America, ma i suoi critici temono una reazione che farà perdere influenza agli Usa, se non scatenerà guerre.
Bandi e muri al confine. E la base resta con lui
Trump ha detto che non vuole immigrati da Haiti, e dagli altri Paesi definiti «shithole», «posti di merda» per due motivi: primo, lo crede; secondo, è quanto la sua base vuole sentire. L’immigrazione, a partire dalla promessa di costruire un muro lungo il confine con il Messico, è il tema che ha lanciato la sua campagna, intercettando le ansie per la perdita del lavoro, dell’identità culturale, e della sicurezza minacciata dal terrorismo. Se non manterrà le promesse, la pagherà alle elezioni midterm di novembre, e soprattutto alle presidenziali del 2020. Il bando per gli immigrati e i rifugiati provenienti da alcuni Paesi islamici, voluto dall’ex consigliere Steve Bannon e scritto da Steve Miller, è stato il primo segnale. Il fatto che i giudici lo abbiano bloccato è quasi irrilevante, sul piano politico, e semmai ha solidificato nella sua base la convinzione di dover difendere Trump. Nel 2018 dovrà cominciare la costruzione del muro, e avviare la riforma generale dell’immigrazione basata sul merito. Il problema è che questo progetto si sovrappone alla crisi degli 800.000 «dreamers», che rischiano di essere cacciati dal 5 marzo: se per salvarli Trump farà un compromesso con i democratici i suoi elettori lo puniranno.
Il rischio domino dell’inchiesta
Il «Russiagate» resta la principale minaccia per la sopravvivenza di Trump. Il fatto che Putin abbia lanciato un’offensiva per influenzare le elezioni americane e destablizzare l’intero Occidente è una certezza condivisa a livello bipartisan. Il presidente resiste perché ciò mette in discussione la legittimità della propria elezione, ma la stessa strategia nazionale pubblicata dalla sua Casa Bianca denuncia l’operazione. Il problema nel 2018 sarà la sua capacità di separare il proprio destino da questa verità. Il procuratore Mueller (nella foto) sta indagando sulla collusione tra Trump e Putin per deragliare Hillary Clinton, e ha ottenuto la cruciale collaborazione dell’ex generale Flynn. L’ex consigliere Bannon ha invece detto che gli incontri tra Donald junior e i russi erano tradimento, ed è impossibile che il padre non fosse informato. La minaccia più seria per il presidente è che indagando sui motivi della potenziale collusione, Mueller scopra altri reati, ad esempio finanziari, che lo abbattano. Poi ci sono i rischi legati al suo comportamento. L’inchiesta del procuratore riguarda anche l’ostruzione della giustizia, in particolare per il licenziamento del capo dell’Fbi Comey. Vuole interrogare Trump, e se scoprisse bugie potrebbe incriminarlo.
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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA -
Un anno di Donald Trump: presidenza inaudita, rivoluzione permanente. Lacerante, provocatorio, i suoi primi 12 mesi erano già racchiusi nel discorso “ dark” di quell’Inauguration Day, 20 gennaio 2017, all’insegna della parola «carneficina» con cui lui descriveva un’America allo sbando. Se ha sorpreso è perché mantiene le promesse: anche quando sono abominevoli per oltre metà della nazione ( che non lo votò). Non ha fatto nulla per allargare il suo consenso, si è curato soprattutto di consolidare il suo zoccolo duro, minoritario ma fedele. L’economia che va a gonfie vele è il punto forte al suo attivo. L’isolamento internazionale è tale solo in alcune parti del mondo. Il danno forse più grave è quello inferto allo stile della presidenza, al tono del discorso pubblico, alla moralità e all’unità della nazione, al rispetto dell’altro. Potrebbe avere solo 9 mesi per continuare così, se porta il partito repubblicano a perdere la maggioranza al Congresso nelle elezioni del 6 novembre.ECONOMIALa crescita supera il 3%, la Borsa polverizza un record dietro l’altro, l’occupazione aumenta. Aveva ereditato un’economia risanata da Barack Obama, con lui però c’è un’accelerazione. Arrivano finalmente segnali di una ripresa anche nelle buste paga. Il successo maggiore è la riforma fiscale. Iniqua perché favorisce soprattutto i profitti delle imprese la cui tassazione scende dal 35% al 21%, o al 15,5% nel caso di rimpatrio dei capitali parcheggiati all’estero. Però il meccanismo “ reaganiano” dà i primi benefici. Eclatante il caso di Apple che paga 38 miliardi di simil- condono e riporta a casa quasi 300 miliardi di investimenti. Fiat- Chrysler chiude una produzione in Messico e la riporta nel Michigan. Lo aiuta anche l’indebolimento del dollaro che concorre a migliorare la competitività. Invece ha fatto poco sul fronte del protezionismo. Niente superdazi contro le importazioni cinesi o messicane. Si è limitato a cancellare l’accordo di libero- scambio con l’Asia- Pacifico, quel Tpp che peraltro anche i democratici contestavano. Il cantiere del protezionismo potrebbe essere il prossimo: dalla revisione del Nafta ( mercato unico nordamericano) alla battaglia contro Pechino sulla concorrenza sleale ( furto di proprietà intellettuale, mancanza di reciprocità nell’apertura dei mercati).POLITICA ESTERAHa demolito sistematicamente ciò che aveva fatto il suo predecessore: i primi passi di disgelo con Iran e Cuba. Ha minacciato guerra in Corea. Ha riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele. Ha tentato un’intesa a tutto campo con Vladimir Putin – di certo accelerando il ritorno d’influenza russa in Medio Oriente – però è stato trattenuto dai timori di avallare i sospetti sul Russiagate. Ondivago con Xi Jiping: minacce e omaggi si alternano. La vanità di Trump lo rende vulnerabile, quei leader stranieri che l’hanno capito ( Xi, Abe, Macron) lo lusingano e ne catturano la simpatia. Ha rinunciato a essere il portatore di un’egemonia Usa sulla globalizzazione, ma non è riuscito a diventare il leader riconosciuto del nuovo fronte sovranista ( vedi il gelo con Theresa May). Il soft power ideologico dell’America è in ritirata tra i vecchi alleati europei. Lui però ha rafforzato altre alleanze: da Israele all’Arabia saudita, dall’India al Giappone. In un mondo dove i nazionalismi populisti erano già all’attacco, i simpatizzanti esteri di Trump non mancano.AMBIENTEÈ il terreno su cui la distruzione delle riforme di Obama è stata implacabile. La denuncia degli accordi di Parigi ( che sarà operativa solo alla fine del suo mandato quadriennale) è l’aspetto simbolico. La sostanza è altrove. Ha cancellato con ordini esecutivi gran parte delle normative che imponevano limiti alle emissioni carboniche per le auto, i camion, le centrali elettriche. Ha autorizzato il maxi- oleodotto XL Keystone dal Canada al Golfo del Messico che Obama aveva vietato. Ha liberalizzato le trivellazioni costiere. Ha sferrato un attacco ai parchi nazionali, alcuni dei quali rischiano di essere amputati di una parte dei loro terreni per darli in concessione a privati. Ha elargito aiuti alle miniere di carbone. Ha depotenziato sistematicamente l’authority per la protezione dell’ambiente, scatenando al suo interno una caccia alle streghe contro gli esperti che non condividono il negazionismo sul cambiamento climatico. Il ritorno all’indietro è talmente brutale da cancellare riforme che risalgono agli stessi repubblicani, da Richard Nixon a George Bush padre. Anche qui è fedele alle promesse fatte in campagna elettorale – gli valsero voti preziosi in alcune circoscrizioni minerarie – ma non con l’andamento dei mercati e del business: le energie rinnovabili continuano ad avanzare.IMMIGRAZIONEÈ cambiato più il tono della sostanza. Di vere riforme ne ha fatte poche. C’è il Muslim Ban, che sospende i visti d’ingresso per i cittadini di sei paesi a maggioranza islamica: dopo diverse bocciature da parte della magistratura ordinaria e d’appello, nell’ultima versione è stato ammesso dalla Corte suprema ed è in vigore. Poca cosa, però. Non c’è ancora il Muro col Messico, simbolo potente della sua campagna elettorale. Lui stesso lo ha ridimensionato: arriverebbe a fortificare la metà del confine meridionale. Sta cercando di negoziarne i finanziamenti con l’opposizione democratica in cambio di qualche concessione ai Dreamer (immigrati senza documenti, ma cresciuti negli Usa). Le espulsioni-deportazioni sono in aumento rispetto all’Amministrazione Obama, ma solo per effetto di un’applicazione più severa delle leggi pre-esistenti. L’insulto razzista contro «quei cessi di paesi» africani o latinoamericani che mandano immigrati nasconde un altro messaggio: vorrebbe tornare a un sistema di selezione per quote etnico- nazionali e professionali, che l’America applicò fino agli anni 60 (anche sotto presidenti democratici).GLI SCANDALIL’inchiesta sul Russiagate deve ancora dimostrare che ci sia stata una collusione fra Trump in persona e la Russia, al fine di manipolare l’elezione del 2016. Non è detto che arrivi fino a lui ma potrebbe inguaiare figlio e genero, scatenando impulsi di vendetta in Donald. C’è inoltre il sospetto di “ostruzione alla giustizia” che grava sul presidente. L’impeachment resta altamente improbabile. Ma l’impatto morale della presidenza è pesante sul clima della nazione: le bugie sistematiche, le aggressioni agli avversari e alla stampa, lo sdoganamento del razzismo. L’autorevolezza della figura presidenziale è svilita dal suo stile dirompente. Finora il movimento delle donne contro le molestie sessuali non lo ha scalfito: l’elettorato di destra gli ha perdonato tutto. Resterà profondo l’impatto delle sue numerose nomine ai vertici della magistratura ( Corte suprema inclusa) che spostano a destra l’asse della giustizia americana. Ma l’era del suo potere assoluto può avere i mesi contati: nelle ultime consultazioni elettorali i repubblicani hanno perso.
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REPUBBLICA.IT –
Trump: un anno di presidenza tra gaffe, distrazioni e stravaganze
Primo anno alla Casa Bianca per Donald Trump. Tante le figuracce e gli sfondoni collezionati dal tycoon: dalle strette di mano mancate (incluse quelle alla first lady) a quelle troppo invadenti, dalla carta igienica lanciata agli alluvionati agli strafalcioni su stati africani inesistenti ed errori fatali sul cerimoniale.
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PAOLA TOMMASI, LIBERO –
Un anno di record. Tutti gli indicatori economici promuovono Donald Trump. E non si può dire che non faccia notizia. Non c’è stato un giorno del 2017 che Dio ha mandato in Terra che i titoli dei giornali del mondo non fossero sul Presidente degli Stati Uniti d’America. Una ne fa e cento ne pensa. Per questo piace ai giovani. Parla come mangia e non se ne tiene una. D’altronde, ha vinto solo contro tutti e questo gli dà la libertà di fare quel che gli pare. Non ha finanziatori o gruppi di interesse a cui rispondere.
E per la prima volta sta realizzando punto per punto il programma che ha presentato agli elettori. Una rivoluzione in politica, dove a quello che si dice e promette in campagna elettorale non viene quasi mai dato seguito. Su questo sarà valutato a fine mandato e, se deciderà di ricandidarsi, molto probabilmente verrà confermato per altri quattro anni alla Casa Bianca.
LEZIONE AI POLITICI
Dal meno politico di tutti, una lezione di stile e di morale ai colleghi del resto del mondo. Che per questo lo odiano: mette l’asticella troppo in alto e raggiungerlo in termini di risultati diventa impossibile per chiunque altro. Ne è un esempio la lettera che i ministri delle finanze europei hanno inviato al segretario al Tesoro Usa, Steve Mnuchin, per tentare di bloccare la riforma fiscale. Gli Stati Uniti diventeranno troppo competitivi sul mercato globale e gli europei faranno fatica a tenere il ritmo. Lo stesso dicasi per il trasferimento dell’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Va da sé che nei prossimi anni dovranno spostarla anche gli altri Paesi, ma che figura ci faranno i loro governanti dopo che hanno sparato a zero contro la decisione di Trump?
Così per i famigerati accordi di Parigi sul clima. Con l’uscita degli Usa dal gruppo dei Paesi che li hanno firmati nel 2015 capitanati da Barack Obama, è emersa tutta la superficialità, l’insensatezza e l’inconsistenza degli impegni in essi contenuti, oltre al grande spreco di denaro pubblico.
LAVORO
Nel primo anno di amministrazione Trump sono stati creati oltre due milioni di posti di lavoro, specie nel settore manifatturiero, grazie al ritorno negli Stati Uniti delle aziende americane che avevano delocalizzato la produzione in Messico o in Cina. Non solo: con un Presidente «razzista» alla Casa Bianca sono aumentati i posti di lavoro regolari occupati dagli afroamericani e dagli ispanici. Addirittura gli immigrati messicani festeggiano il nuovo corso economico con rimesse sempre più ricche che inviano ai loro parenti oltre confine. Il tasso di disoccupazione in Usa è al 4,1%: minimo storico da diciassette anni. Giusto a titolo di esempio, in Italia è all’11%: quasi il triplo.
Facciamoci delle domande e diamoci delle risposte. Una veloce veloce la diamo proprio a Matteo Renzi, che in queste settimane di campagna elettorale si riempie la bocca della proposta di innalzamento del salario minimo per i lavoratori. Se l’economia cresce, non c’è bisogno del governo per aumentare le buste paga: gli stipendi lievitano in maniera quasi automatica, o perlomeno volontaria da parte delle aziende che premiano l’aumento della produttività dei loro dipendenti. È avvenuto, per esempio, da questo mese con Wells Fargo e Fifth Third, società operanti nel settore del credito bancario.
TASSE
Così come altre più di cento grandi aziende, inclusa Fiat Chrysler, hanno riconosciuto bonus da duemila dollari a operai e impiegati grazie agli ottimi risultati conseguiti nel 2017. Un premio di cui hanno beneficiato oltre due milioni di lavoratori americani.
Basta guardare i dati del mercato del lavoro per capire l’andamento della politica di un Paese. E Trump ha potuto conseguire i risultati positivi che abbiamo visto grazie a un certosino lavoro di semplificazione burocratica e alla sua grande rivoluzione fiscale. Millecinquecento miliardi di taglio delle tasse in dieci anni: centocinquanta all’anno che restano nelle tasche dei cittadini piuttosto che passare in quelle dello Stato. Mentre in Italia ancora ci scandalizziamo se la Flat tax ne costerà quaranta. Tanto più che le nuove aliquote fiscali porteranno l’economia americana a crescere più del 4% all’anno. Sempre solo a titolo di confronto, in Italia tocca baciare terra se il Pil cresce dell’1,5%. Come conseguenza, la Borsa Usa ha creato valore, solo in un anno, per quasi ottomila miliardi di dollari.
POLITICA ESTERA
Non c’è dubbio che la forza economica restituisca centralità politica. E nel suo primo anno Donald Trump ha giocato un ruolo centrale sullo scacchiere internazionale. Come aveva promesso in campagna elettorale, dopo pochi mesi dall’insediamento ha di fatto annientato l’Isis, ridotta ormai ai minimi termini, salvo qualche «foreign fighter» facilmente neutralizzabile con i mezzi di intelligence dei servizi segreti. In accordo con la Cina, tiene sotto scacco il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Mentre in Medio Oriente, dalla parte di Israele e contro l’Iran (che dalla sua, invece, ha Federazione Russa e Turchia), ha stretto un’alleanza forte con l’Arabia Saudita.
Il resto della diplomazia la fanno i suoi incontri sul campo da golf a Mar-a-Lago, in Florida, con il presidente giapponese Shinzo Abe e la grande attenzione all’abbigliamento di Melania e Ivanka nei lunghi viaggi di Stato all’estero. Sembrano stupidaggini, ma in politica estera i simboli contano.
IMMIGRAZIONE
Anche per l’immigrazione parlano i numeri. La costruzione del famoso muro al confine col Messico era cominciata già sotto l’amministrazione di George Bush (figlio) nel 2006. Il numero degli ingressi clandestini di chi varcava il confine in maniera illecita si ridusse drasticamente da 122.261 a 12.251. Di pari passo scomparvero quasi del tutto la criminalità e il traffico di droga, come testimoniano gli abitanti di El Paso, città del Texas al confine con il Messico passata ad essere dalla più pericolosa alla più sicura d’America.
Brutta sorte, insomma, per i nemici di Trump: dopo il fallimento dell’inchiesta sui rapporti con la Russia, che si è dimostrata un polverone dannoso più per Hillary Clinton e il partito democratico che per il Presidente e la sua famiglia, dopo gli innumerevoli tentativi di impeachment, tutti risoltisi in nulla di fatto, dopo i milioni di notizie false su di lui divulgate dai media nel tentativo di azzopparlo, da ultimo è venuto pure fuori che non solo è mentalmente stabile, cosa che più volte, sia pur senza riscontri effettivi, è stata messa in dubbio, ma è pure sano come un pesce. Anzi, aggiunge il suo medico, ha dei «geni pazzeschi». Con tutto il cibo spazzatura che mangia solo un metabolismo forte e un Dna potente gli consentono di resistere.
Già, il cibo spazzatura. Quello di McDonald’s, per intenderci, di cui come Trump si nutre la quasi totalità degli americani. Un altro punto su cui è in sintonia con il suo popolo. «Donald uno di noi», si sente camminando per strada. Non come Obama e la moglie Michelle. Carini sì, soprattutto per i commentatori dei salotti chic, ma altrettanto lontani dall’anima del Paese. E per nulla rimpianti.
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GIANNI RIOTTA, LA STAMPA –
La teoria del caos studia i fenomeni regolati, insieme, da leggi inflessibili e dal caso imprevedibile. Dalla fisica, la teoria del caos va ora importata in politica per trarre i primi bilanci, un anno dopo il giuramento del presidente americano Donald Trump. Le leggi fisse del sistema costituzionale Usa tengono, malgrado gli allarmi di intellettuali come il repubblicano Frum. L’ambasciatore a Panama John Feeley, ex Marine, s’è dimesso ieri scrivendo di contrasto insanabile tra il presidente e la sua coscienza.
I tribunali fanno da contrappeso alla Casa Bianca, per esempio sull’immigrazione, come prevede la Costituzione. E l’economia ha smentito la recessione annunciata dal Nobel Paul Krugman, con record a Wall Street, buoni dati su occupazione e investimenti, mentre Walmart, che occupa un milione di persone, aumenta i salari minimi grazie, dicono i vertici aziendali, alla riforma fiscale, fin qui la vittoria maggiore di Trump.
Ma, non appena si crea, anche grazie agli sforzi titanici del suo staff, il capo di gabinetto Kelly, i ministri Mattis e Tillerson, il consigliere McMaster, un qualche equilibrio, Trump lo smonta con gusto. Si profilava l’intesa tra maggioranza repubblicana e opposizione democratica sull’immigrazione, quando il presidente ha ceduto a uno degli scatti d’ira che tanto han contribuito al successo del libro di Wolff, «Fuoco e Furia» ed è subito caos. Definendo «latrine di m…» i Paesi, come la sfortunata Haiti, che vuol escludere dai permessi di cittadinanza, Trump scatena proteste e sdegno, dall’Onu, agli alleati, in America Latina. La mediazione sul dossier migranti si ferma e il presidente viene accusato di «razzismo» dal senatore democratico Durbin, presente ai fatti.
Da qui alle elezioni di midterm a novembre, non conosceremo un Trump, «moderato», «statista» grazie al make up di Kelly. Dalla bocciatura della riforma sanitaria di Obama, dove ha fallito, alla riforma fiscale approvata, Trump ha sempre incendiato il dibattito con tempeste di tweet e andrà avanti. La sua giornata di riunioni cominciava alla 9 del mattino, ora ritarda fino alle 11. In serata va in residenza privata dove, circondato da tre tv, al telefono con amici e confidenti - perduto però Bannon, il nazionalista che ha parlato troppo con Wolff venendo messo al bando - agita agenda ed umori. Lo schema continuerà, Trump è persuaso che «fare Trump» sia la chiave del successo, negli affari, sui media e in politica, e non cambierà, né potrebbe: nessuno è stato eletto, per la prima volta, a 70 anni, anche Reagan era più giovane.
Così Trump può alienarsi un alleato fedelissimo come la premier britannica May per uno scatto, si isola in Medio Oriente per la dichiarazione su Gerusalemme, fa fuoco e fiamme contro l’Iran, ma alla fine sa che l’ambasciata Usa in Israele non si muoverà per anni, mentre firma il rinnovo del patto nucleare con Teheran, magari impilando un po’ di sanzioni a latere per propaganda e, sia pur senza dirlo, tacitamente accetta i patti Nato.
Gli Stati Uniti perdono consenso nel sondaggio Pew mondiale, dal 64% al 49%, risalendo nella stima solo di russi e israeliani. Trump ha un indice di gradimento intorno al 36%, meno 6% da gennaio scorso. I numeri sono una rotta tra democratici e indipendenti, ma la base repubblicana tiene. Il Paese è spaccato, ma quando il presidente controlla i dati dei sondaggi, compilati nel Morning Consult’s daily tracking può addentare con piacere i Big Mac, sua dieta base. Tra gli elettori repubblicani il consenso di Trump resta infatti altissimo, 76% solo -4 dall’insediamento. Tra chi lo ha votato nel 2016 va meglio, 77% di consensi. La stessa cifra lo sostiene tra i repubblicani uomini, piccola flessione tra le donne 75%.
Quando Trump fu accusato di molestie sessuali, nel 2016, un terzo dei senatori repubblicani gli chiese di ritirarsi. Subito dopo, WikiLeaks, con abile scelta di tempo, rese pubbliche le mail contro la Clinton e tolse così dai titoli e dalle tv il tema dimissioni. Oggi solo i senatori Flake e Corker, con McCain malato, si oppongono a Trump, gli altri parlamentari si allineano, perché conoscono il Morning Consult’s e non vogliono irritare gli elettori.
A novembre ai democratici servono 24 seggi per conquistare la Camera. In media il presidente debuttante ne perde 30. Accadrà? Dipende se si riprodurrà l’effetto Alabama, dove i democratici han conquistato un insperato senatore grazie a neri e ceto medio anti Trump. Per il resto sarà caos. Con effetti imprevedibili, come il riavvicinamento delle Coree, indotto da Trump con i toni bizzarri contro Kim Jong-un. Così funziona il caos in politica, nessuno ne può anticipare le ultime conseguenze, e per questo sbaglia il sindaco di Londra Khan ad esultare se Trump annulla, temendo proteste, la visita in Gran Bretagna. Per oltrepassare il caos serve raziocinio, non propaganda. E la degenerazione del linguaggio politico, oggi violenta in America, richiede anni per suturarsi.
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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA –
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BERNARD GUETTA, INTERNAZIONALE –
Di sicuro non c’è niente da “festeggiare”. Allora diciamo che il 20 gennaio prenderemo tristemente nota del primo compleanno della presidenza di Donald Trump. Prima dei bilanci e delle retrospettive che sicuramente pioveranno da tutte le parti, vale la pena porsi tre interrogativi.
Per prima cosa dobbiamo capire se il predominio internazionale degli Stati Uniti potrà sopravvivere a Trump. Non è affatto scontato che sia così, perché Trump arriva dopo George W. Bush e Barack Obama, due presidenti che avevano già avviato il ritiro statunitense dalla scena internazionale.
Negli ultimi anni del suo secondo mandato, Bush non aveva fatto altro che cercare di uscire dal caos che la sua avventura in Iraq aveva seminato in Medio Oriente.
È sotto di lui che è cominciato il declino politico della potenza statunitense. Finché Barack Obama, nonostante la straordinaria pertinenza dei suoi discorsi di politica estera, non ha accentuato questa tendenza rifiutandosi, all’ultimo minuto, di colpire l’aviazione di Bashar al Assad dopo che il dittatore aveva utilizzato armi chimiche contro il suo popolo.
Campo libero per Putin
Obama aveva parlato di “linee rosse”, e il giorno in cui ha preferito l’immobilità nonostante le linee rosse fossero state abbondantemente superate, Vladimir Putin si è sentito libero di rimettere piede in Medio Oriente correndo in aiuto di Damasco e nessuno al mondo si è più fidato degli Stati Uniti.
È in questo contesto che è arrivato Trump. Anche lasciando da parte la sua insostenibile volgarità, è innegabile che il nuovo presidente ha commesso innumerevoli gaffe in dodici mesi, ha adulato la Cina dopo averla ripetutamente offesa, ha complicato i rapporti con la Russia dopo aver sognato di stringere un’alleanza con Mosca e ha fatto capire rapidamente agli europei che non possono contare su Washington. Il mondo, di conseguenza, si è già abituato a vivere senza il gendarme americano.
Dato che non ci sono altri gendarmi, però, questo stesso mondo è alla ricerca di nuovi rapporti di forza. L’Unione europea cerca di recuperare il tempo perduto e serrare i ranghi, la Cina mostra i muscoli al continente asiatico, la Russia si perde in improbabili connivenze con turchi e iraniani, l’India si avvicina a Israele e le due Coree aprono un canale di dialogo. Ognuno cerca la sua strada, e sembra difficile che in futuro qualcuno sia ansioso di rientrare nella sfera d’influenza degli Stati Uniti.
Il secondo interrogativo riguarda la possibilità che qualcuno, dopo Trump, possa avere abbastanza forza e carisma da ripristinare l’autorità presidenziale negli Stati Uniti. La risposta è che per il momento non si vede nessuno che abbia la capacità di farlo. Il terzo interrogativo, infine: riuscirà quest’uomo a terminare il suo mandato? La risposta è sì, almeno fino a quando il congresso sarà controllato dai repubblicani.
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MAURO DELLA PORTA RAFFO, CORRIERE.IT –
Un anno e mezzo. Una volta eletto per il primo mandato, il presidente degli Stati Uniti ha un anno e mezzo, diciotto mesi, per governare. Per governare senza eccessivi lacci e impedimenti. Senza essere condizionato da scadenze elettorali. Trascorso tale periodo, avvicinandosi le Mid Term Elections, tutto cambia. I doveri nei confronti dei parlamentari «amici» nonché del partito stesso viepiù prevalgono e vincolano. Non che nel predetto periodo «aureo» possa il Capo dello Stato Usa fare davvero quello che vuole. Contrariamente a quanto correntemente detto e ripetuto, l’inquilino della White House non è assolutamente l’uomo più potente del mondo, non è affatto svincolato da condizionamenti e controlli. Gerald Ford, a tale riguardo, ebbe ad affermare che «l’unica cosa che può decidere da solo un Presidente è quando andare al gabinetto» Fatto è che — tutti lo dimenticano quando non lo ignorino — il potere legislativo non gli appartiene essendo riservato al Congresso. Di più, non è tra le sue competenze neppure qualcosa di analogo ai nostri decreti legislativi potendo egli operare solo in campo esecutivo. Di più ancora, contro i provvedimenti amministrativi presi dal Presidente è consentito ricorrere in giudizio. Certo, non è che gli manchi la possibilità di indirizzo politico che esercita attraverso messaggi che invia al Parlamento. Le conseguenti proposte di legge, opera di rappresentanti o di senatori, per quanto indicate come presidenziali, tali in verità, non soltanto formalmente, non sono.
2 Nei primi anni Trenta del Diciannovesimo secolo, in America, un nuovo insorgente partito - il Whig - assai critico nel confronti di Andrew Jackson allora in sella, incluse nel proprio programma la proposta di un Emendamento costituzionale che limitasse ad uno soltanto i possibili mandati del Presidente. (Per inciso, i due whig effettivamente eletti mantennero l’impegno visto che morirono entrambi in carica. Uno dopo un solo mese: William Harrison. L’altro dopo poco più di un anno: Zachary Taylor). L’intento era quello di rendere più indipendente l’eletto, in grado di agire senza l’assillo conseguente alla necessità di ottenere una seconda vittoria. (All’epoca - e si dovrà attendere il 1951 dopo la quadruplice affermazione di Franklin Delano Roosevelt per la deliberazione in merito - non esisteva, se non per rispettare l’esempio di George Washington che aveva rifiutato un terzo mandato, impedimento alcuno al numero delle candidature e delle possibili conseguenti affermazioni). Considerato che la proposta whig non ebbe udienza e che un nuovo incarico è possibile (e probabile il successo dato che molto difficilmente il Presidente in carica perde lo scranno), il secondo biennio del primo mandato è fortissimamente condizionato dalla futura candidatura che impone comportamenti utili ad ottenere la nomination e la rielezione e non, per così dire, liberi.
3 Tutto ciò detto e considerato, guardando all’età al momento dell’insediamento di Donald Trump (è il più anziano presidente eletto ed entrato in carica solo il Reagan del secondo - ripeto: secondo - quadriennio era più anziano di lui) avevo ipotizzato che il tycoon avrebbe da subito dichiarato l’intenzione di occupare la Casa Bianca per soli quattro anni. Al fine di avere decisamente più autonomia. Di operare senza i predetti citati impedimenti. Di essere appoggiato con maggiore impegno dal partito. Di permettere ad altri di coltivare relativamente a breve aspirazioni presidenziali. Di essere meno sotto gli assillanti riflettori della stampa, dei media in generale. Così non è stato. Finora, mi dico. Finora...
4 Quali le aspettative il 20 gennaio 2017 al momento del giuramento di Donald Trump nelle mani del presidente della Corte Suprema John Roberts? Storicamente parlando, raramente un presidente americano ha governato come ci si sarebbe aspettati. Ovviamente, in ragione e conseguenza degli accadimenti, spesso se non in ogni circostanza del tutto imprevedibili. Poi a causa della opposizione trovata in uno o addirittura tutti e due i rami del Congresso. In qualche caso, per incapacità. È occorso che candidati di altissimo profilo e pertanto attesi a grandi cose fallissero. È capitato al contrario che individui mediocri si rivelassero perfetti per il ruolo. È perfino successo - e non poche volte - che, passato a miglior vita l’eletto, il vice subentrato si appalesasse l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Cosa attendersi pertanto da un «dark horse» (un cavallo non favorito e invece vincente), da un «maverick» (nel gergo, come ai tempi del West, un «vitello non marchiato» e pertanto senza padrone, indipendente) quale il Nostro era ed è? Ancora, da un politico senza ideologia, capace di iscriversi per anni nelle liste elettorali come democratico, di flirtare col Reform Party, di entrare e uscire nelle e dalle fila repubblicane? Che ha scelto la corsa per la nomination nel Gran Old Party perché lo ha ritenuto «scalabile» per le divisioni ideologiche interne ben rappresentate da addirittura diciassette candidati tra loro in lotta? Da un pretendente alla poltrona presidenziale che, per quanto appartenente alla classe degli abbienti ha saputo proporsi come «il candidato del popolo», in questo decisamente favorito dalla pessima considerazione da parte di un numero notevole di elettori della rivale Hillary Rodham Clinton, percepita come espressione di un establishment vecchio, inviso e incapace di risolvere i gravi problemi economici di larga parte del Paese, «cintura della ruggine» in primo piano? Da un candidato che ha saputo evitare l’oramai insopportabile politically correct? Da un individuo che avrebbe comunque dovuto imparare il mestiere, cosa che - non solo in America - agli imprenditori che entrano nell’agone politico risulta difficile e non poco?
1) Donald Trump sta operando per quanto possibile secondo il programma proposto agli elettori nel corso della campagna 2016. Mantiene le promesse («America first», il suo slogan, non dimentichiamolo) o cerca di farlo. È questo suo comportamento assolutamente estraneo alla politica. Sappiamo tutti e da sempre (per il vero, molto più in anni recenti) che gli impegni elettorali non si mantengono. Come si permette? Come si permette in tale agire di cercare di cancellare ogni traccia della presidenza Obama? (Per inciso, otto anni di Obama hanno distrutto il partito democratico e sono i dati elettorali a dimostrarlo, senza tema di smentita).
2) Nel mentre, neofita, il tycoon va imparando il mestiere (e vedremo se riuscirà), trova tra i suoi colleghi di partito ostacoli non imprevedibili — ricordiamo la forte opposizione interna al GOP alla sua candidatura durante l’intera campagna elettorale — in particolare al Senato laddove la maggioranza repubblicana è risicata (e diminuita dopo la sconfitta in Georgia) e affidata ad un paio o tre di senatori apertamente a lui contrari.
3) Di più. Non indifferente la contrarietà - che si appalesa in specie nelle primarie per la scelta dei candidati repubblicani ai vari incarichi - del suo ex collaboratore e stratega elettorale Steve Bannon, il quale, su posizioni decisamente di destra estrema e con venature razziste, appoggia candidati al Presidente non graditi. Tornando alla Georgia, per quanto i media abbiano gridato nelle recenti suppletive alla «sconfitta del candidato di Trump», così non è stato visto che il GOP in corsa era un uomo di Bannon, in precedenza, nelle primarie, capace di battere colui che Trump nella circostanza preferiva.
4) Non va assolutamente dimenticato, poi, che alla Camera - dove la prevalenza del partito repubblicano è nettissima - un forte gruppo di Rappresentanti GOP è su posizioni radicali spesso condizionanti. Si guardi a quanto capitato alla proposta di legge firmata dallo speaker Paul Ryan intesa a modificare l’Obamacare. Non è passata non per la ininfluente opposizione democratica ma perché la citata destra radicale voleva la cancellazione della riforma sanitaria in questione non essendo interessata alla sua semplice modifica.
5) Difficile — ricorsi, sentenze di giudici avversi, necessità di arrivare fino alla Corte Suprema — ottenere assensi a non poche delle determinazioni presidenziali in campo amministrativo. E basti qui ricordare quanto successo alla disposizione concernente l’accesso negli Usa dei cittadini di alcuni Stati considerati ostili.
6) Mai cessata per quanto alla fine (come si è verificato in sede elettorale l’8 novembre 2016) poco influente in concreto l’opposizione praticamente unanime dei media americani che Trump tratta comunque a pesci in faccia.
7 ) Criticatissime le posizioni in politica estera e ben prima della decisione di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Gli Stati Uniti di Trump — avverso a dir poco già in campagna con la Nato, l’Onu le altre organizzazioni internazionali, i vari Trattati fiore all’occhiello della precedente amministrazione e oggi conseguentemente in azione – questione Corea del Nord a parte, sono isolati. Isolati e minacciosi (in campo economico, quanto a finanziamenti e aiuti) come si vede in particolare dopo il voto larghissimamente contrario dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a proposito della citata questione israeliana.
8) Come tutti (e di più) i politici attualmente in vista — mediocri o peggio — in Occidente, Trump dà peso eccessivo ai sondaggi, ai continui cambiamenti di umore che il web mette in mostra, comunica assolutamente troppo... I «grandi» (rarissimi) politici hanno una visione e nell’operare per realizzarla non si fanno certamente condizionare dalle mutevoli voglie di un mutevole elettorato, voglie rappresentate — quando mai? — da rilevazioni sondaggistiche guidate e spessissimo falsificate. (Fidarsi oggi dei sondaggi — non solo in campo elettorale — è follia visti i continui fallimenti, in primis proprio quanto all’esito della campagna 2016 per White House).
9 Indubbi e importanti i successi in campo economico, sia quanto alla internazionalità (in particolare con Cina e Giappone), sia quanto all’interno (la volutissima riforma economica è legge!).
Tutto ciò detto (e quanto altro sarebbe necessario dire…), sgombrato il campo dall’ipotesi impeachment, impraticabile, quali le previsioni? Sempre, invero, ma nel caso Trump a maggiore ragione, l’incertezza quanto al futuro regna sovrana. Amante dei riflettori, imprevedibile, il tycoon punta alla Storia con la esse maiuscola. Ancora ricordando che i suoi poteri sono comunque limitati, ancora auspicando che l’esercizio del ruolo lo illumini, auspicando che sia fortunato (Napoleone cercava generali fortunati…) e che il destino non gli (ci) proponga drammaticità, riservandoci di vedere quale esito avranno le Mid Term Elections in programma il prossimo 6 novembre, incrociamo le dita!