la Repubblica, 19 gennaio 2018
I figli della Jihad
PARIGI Dal cielo, con le sue mille lucine, Parigi sembra un presepe. I fratellini guardano la città avvicinarsi, non ricordano quasi niente della capitale. La più piccola aveva un anno quando è partita insieme ai genitori, gli altri erano ancora alla scuola materna. Viaggiano soli. Un operatore della Croce Rossa è venuto a prenderli di prima mattina all’Iraqi Counter Terrorism Service ( Icts) di Bagdad dov’erano detenuti insieme alla madre e al fratellino più piccolo. «Bentornati in Francia», dice uno degli assistenti sociali cui spetta il compito di accoglierli all’aeroporto di Roissy. Ci sono anche uno psicologo, un funzionario della Prefettura, un magistrato. Tutti sono nervosi, la tensione è palpabile. Per organizzare il rimpatrio ci sono voluti mesi. La situazione si è finalmente sbloccata una settimana prima di Natale grazie alla mediazione della Croce Rossa. L’organismo internazionale creato oltre un secolo fa nelle trincee della prima guerra mondiale, ha una lunga esperienza in operazioni umanitarie che coinvolgono minorenni. Il rimpatrio dei fratellini durante il periodo delle feste è però un fatto inedito anche per la veneranda istituzione. Di solito la Francia gestisce le procedure di rimpatrio dei suoi cittadini attraverso le strutture consolari. Perché questa volta è stato necessario affidarsi all’intermediazione della Ong? E perché la madre dei bambini, Mélina, non è con loro?
«È un dossier sensibile». Al telefono, la portavoce della Croce Rossa, Lucile Marbeau, si fa scudo con il riserbo dell’organizzazione. «Noi siamo un intermediario, entriamo in campo nel cosiddetto ultimo chilometro, nel momento in cui tutte le parti sono d’accordo». Una fonte del ministero degli Esteri taglia corto: «Meno se ne parla, meglio è». Nessuna comunicazione ufficiale sul rimpatrio dei tre bambini francesi dall’Iraq, nessuna dichiarazione delle istituzioni. Nell’autunno scorso, Emmanuel e Brigitte Macron ricevevano all’Eliseo i figli delle vittime degli attentati degli attacchi organizzati dall’Isis. I piccoli sono stati “adottati” dalla coppia presidenziale, dichiarati “pupilli della Nazione”. Gli orfani dei jihadisti, invece, sono nascosti, avvolti in un silenzio imbarazzato. I tre bambini atterrati a Rossy sono fantasmi che spariscono nella notte.
La partita dei rimpatri
William Bourdon, avvocato penalista, storico militante della gauche, già direttore della Federazione per la difesa dei diritti umani, lavora da mesi sulla questione delle madri detenute tra Siria e Iraq. Il rimpatrio dei fratellini prima di Natale è anche merito suo. Una vittoria a metà visto che i bambini sono stati stati separati dalla mamma, Mélina Boughedir, rimasta in una prigione irachena. La donna è indagata in Francia per il reato di “associazione per delinquere in relazione con un gruppo terrorista” che prevede da 6 a 10 anni di reclusione. Il governo non ha voluto chiedere l’estradizione. «Mélina avrà un processo a Bagdad, non sappiamo come andrà», spiega Bourdon insieme all’assistente Vincent Brengarth, ricordando che in Iraq esiste la pena di morte. Nello studio con vista sul Louvre, l’avvocato sostiene che in tanti anni di carriera non ha mai affrontato una vicenda così «contorta». Il dibattito, commenta, non è assolutamente sereno. Lui ha scelto di non occuparsi di jihadisti per evitare ulteriore confusione. «Nell’attuale clima mediatico e politico è difficile persino dire cose di buon senso, ad esempio che le colpe dei genitori non dovrebbero ricadere sui figli». L’atteggiamento dello Stato nei confronti di queste madri, continua, è «incomprensibile, ipocrita, crudele». Non è un caso che il rimpatrio dei fratellini sia stato delegato alla Croce Rossa. Nessuno voleva prendersi la responsabilità politica. L’avvocato sbotta: «È la traduzione nelle istituzioni di un sentimento popolare che potremmo riassumere così: hanno voluto andare all’Inferno, e allora che ci restino!».
L’inferno del Califfato
L’inferno deve essere qualcosa che assomiglia molto a Mosul, Iraq, nel luglio scorso. Gli uomini delle forze speciali irachene perlustrano i quartieri vecchi della città appena liberata. In uno dei rari palazzi risparmiato dai bombardamenti sentono urla di bambini. Vengono dal basso. Nel piano interrato è nascosta una famiglia. La donna è scheletrica, peserà appena quaranta chili. Ha in braccio un neonato che sembra svenuto, non ha più la forza di piangere. Le due bambine di tre e otto anni sono sdraiate nella polvere. Il bambino di cinque anni è in piedi, lo sguardo allucinato. Vivono così da tre settimane, da quando è cominciato l’assedio della città irachena controllata dallo Stato Islamico. La donna guarda i militari con i fucili puntati, implora pietà in un inglese approssimativo. «Mio marito è uscito a prendere l’acqua poi è sparito, non è un combattente dello Stato islamico, vi prego aiutateci». Dopo aver controllato che la donna non indossi una cintura esplosiva, la famiglia viene caricata su un un blindato in direzione Bagdad. La comunicazione al console francese è quasi immediata. Mélina Boughedir, nata a Melun, banlieue di Parigi, il 5 maggio 1990, è stata arrestata.
Il Patto col Diavolo l’aveva scelto. «E pensare che ero così contenta quando sono arrivata in Siria». Nei mesi prima dell’assedio di Mosul, Mélina e suo marito si sono confidati alla giornalista Edith Bouvier, con la quale hanno scambiato messaggi WhatsApp. Avevano lasciato la Francia nell’autunno 2015, ma l’entusiasmo si era spento in fretta. «Ci hanno mandato da Raqqa in Iraq senza neppure avvertirci. Siccome non parlavamo arabo, se ne sono approfittati. In teoria – continuava la donna – avevamo diritto a uno stipendio di 240 dollari al mese ma spesso non ci veniva versato perché mio marito rifiutava di combattere. Lui era un turista. Pensavamo di poter vivere nello Stato islamico senza fare la guerra». Una versione che non convince le autorità francesi. Il marito di Mélina era già stato condannato in patria nel processo contro un gruppo islamista considerato vicino ad al Qaeda. Un “turista”?
Nel febbraio scorso nasce a Mosul il quarto figlio della coppia. La fine dello Stato islamico si avvicina. Mélina e il marito raccontano un tentativo di fuga con «un’automobile finita in panne» e l’avvio di una procedura per andarsene «rifiutata dalle autorità locali che hanno pensato solo a proteggere gli emiri e qualche famiglia cecena». Le zone controllate dall’Isis si restringono ogni giorno di più. Un cecchino è appostato in cima al palazzo dov’è nascosta la famiglia. Gli ultimi messaggi del marito di Mélina sono sempre più disperati. «Devo portare mia moglie e i miei figli via di qui. I droni punteranno contro il cecchino e moriremo tutti. Non capisco perché l’Isis si batte ancora, non c’è più nulla da salvare del loro Stato».
Durante l’assedio, il ministero degli Esteri risponde ai parenti di Mélina che le autorità francesi non possono fare niente per la donna e i suoi figli nella trappola di Mosul. Un funzionario suggerisce: «Ditele di appendere un cartellino al collo dei bambini con nome e cognome in modo che siano identificabili se restano orfani». Poco dopo, quando la famiglia è arrestata dalle forze irachene, un diplomatico confida: «Non abbiamo nessun interesse a farli tornare». In autunno, durante i combattimenti a Raqqa, la ministra della Difesa Florence Parly è ancora più chiara. «Alcuni francesi potrebbero essere uccisi durante la battaglia? Meglio così». Una fonte del governo commenta: «Manca solo che le famiglie di questi francesi ci chiedano di organizzare una missione di safe&rescue per salvare dei terroristi».
Il reclutamento
C’è un volto che ha segnato l’immaginario collettivo e condiziona ancora oggi il dibattitto. Nel marzo 2015, due mesi dopo gli attentati di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher, in una scuola media di Tolosa la preside viene chiamata in urgenza da un’insegnante. Gli alunni piangono, citano un filmato su YouTube, sono scioccati. In un video di propaganda dell’Isis hanno riconosciuto un loro ex compagno. Fino a pochi mesi prima, Rayan giocava a calcio nel cortile. Adesso ha lo sguardo buio, indossa una tuta mimetica, un berretto nero, punta la pistola sulla tempia di un prigioniero a ginocchio e lo uccide. Il giovane di Tolosa diventa il simbolo dei figli della Jihad. Rayan è stato portato via alla sua famiglia dallo zio Sabri Essid, fratellastro di Mohammed Merah, il giovane di Tolosa che nella primavera 2012 ha ucciso quattro militari e tre bambini all’uscita di una scuola ebraica. La famiglia di Rayan sostiene di avere ancora qualche notizia del ragazzo che oggi ha quindici anni e sarebbe ancora vivo, forse fuggito con lo zio in un altro paese. Se tornasse in Francia andrebbe in prigione, com’è accaduto a sei giovani attualmente in carcere, di cui quattro condannati e due in attesa di processo.
Nel Palazzo di Giustizia affacciato sulla Senna, davanti a Notre- Dame, lavorano i magistrati dell’unità anti-terrorismo guidata dal procuratore François Molins, l’uomo che i francesi hanno imparato a conoscere nei momenti più drammatici, dopo ogni attentato, da Charlie Hebdo al Bataclan. Tra poche settimane i magistrati saranno trasferiti nel nuovo edificio a Batignolles, periferia della capitale, disegnato da Renzo Piano. La procura ha raddoppiato il numero di minorenni indagati per terrorismo nell’ultimo anno, passati da 13 a 51. Solo una minima parte è di ritorno dalle zone di guerra. Molti hanno consultato siti vicini all’Isis, sono stati in contatto con reclutatori, hanno tentato di partire senza riuscirci. Sotto ai 13 anni i minorenni non hanno responsabilità penale e quindi non possono essere indagati né processati. È una delle tante difficoltà nell’affrontare il fenomeno dei “leoncini del Califfato”. «Non siamo ingenui», sottolinea Molins con manifesta insofferenza. «Molti di questi bambini sono stati indottrinati, hanno imparato prestissimo a maneggiare armi. Sono delle bombe a orologeria».
Il Comité interministeriel de prévention de la délinquance et radicalisation ( Cipdr) ha censito 61 bambini già tornati dalle ex zone del Califfato, compresi i figli di Mélina. Muriel Domenach è il Segretario generale dell’organismo, coordina le strutture che si devono occupare di questi minorenni. È una donna pragmatica, non vuole cadere in un facile buonismo. «Certo, i figli delle donne partite in Siria sono prima di tutto delle vittime ma, per quello che hanno vissuto, possono rappresentare una minaccia nel lungo periodo». Esiste, spiega Domenach, una tensione permanente nelle istituzioni tra l’esigenza di applicare la sacrosanta protezione dell’infanzia a cui hanno diritto questi minorenni e la necessità di proteggere la società da una nuova generazione di islamisti radicali o peggio terroristi. La situazione delle madri è complessa. «Anche se è vero che sono partite in modo volontario, spesso hanno un passato di vittime di violenze famigliari o sociali». Nella maggior parte dei casi, osserva la responsabile del comitato governativo, le donne non hanno combattuto, sono state utilizzate solo per figliare».
Per Domenach i francesi sedotti dalla jihad sono una vecchia conoscenza. Prima di essere responsabile del comitato governativo è stata console a Istanbul tra il 2013 al 2016. Un osservatorio sulle diverse ondate di giovani andati in Siria, passando dalla Turchia, e poi sul riflusso, un movimento opposto e contrario. «Sono spesso le donne che spingono gli uomini a fuggire, soprattutto quando ci sono figli di mezzo», osserva Domenach. «Malgrado l’indottrinamento, l’istinto materno prevale».
Laura Passoni ha deciso di andare via da Raqqa quando Nassim, quattro anni, è arrivato a casa con un coltello e un peluche senza testa. Alcuni “fratelli” avevano impartito al bambino un corso di decapitazione. «Non volevo che mio figlio diventasse un martire, un terrorista». Belga di madre abruzzese, ha trascorso nove mesi nel Califfato. Cresciuta in una famiglia cattolica, si era convertita dopo una pena d’amore, cambiando il suo nome in Nora. E Nora decide di seguire in Siria il nuovo marito, Oussama, conosciuto su Facebook, portando con sé il figlio nato da una precedente unione. Era il 2014, prima degli attentati in Europa. «Avevo creduto alle promesse di una società più giusta, senza vizi né alcool, con una vera solidarietà tra musulmani». Laura voleva essere infermiera, occuparsi dei feriti. «Ho capito in fretta che le donne dovevano restarsene a casa». È lei a convincere Oussama a partire, chiedendo a suo padre di venire alla frontiera turca per pagare i passeurs. In Belgio, Oussama è ancora in prigione. Laura è stata condannata a quattro anni con la condizionale. Ha pubblicato due libri, tra cui un manuale per le famiglie che devono affrontare il fanatismo, e cura un programma contro la propaganda religiosa nelle scuole. «Ragazze – dice spesso nelle classi – non credete a quello che vi dicono, l’Isis considera le donne solo come uteri da riproduzione».
Tra il 2014 e la prima metà del 2015 le mogli dei combattenti non andavano quasi mai in prigione. Venivano fermate all’aeroporto insieme ai mariti, interrogate dai magistrati dell’anti-terrorismo e spesso rilasciate. Le autorità le consideravano una preziosa fonte di informazione senza ruolo operativo nell’organizzazione terrorista. Dopo gli attentati del Bataclan è cambiato tutto. Con l’approvazione dello stato di emergenza, le regole sono diventate più severe per chiunque abbia un legame più o meno diretto con l’Isis. Un altro spartiacque è stato l’attentato sventato nel settembre 2016, quando un gruppo di ragazze ha cercato di far esplodere delle bombole a gas vicino Notre-Dame. L’anti-terrorismo ha cominciato con sempre maggiore frequenza a mandare allerta e rapporti sul reclutamento al femminile all’interno dell’Isis.
Martin Pradel ha seguito ogni tappa dell’evoluzione della giurisprudenza. «L’avvocato dei jihadisti», ha difeso non solo degli ex combattenti ma anche le loro mogli, riuscendo spesso a farle liberare e prosciogliere da ogni accusa. In alcuni casi c’è stato il rinvio a giudizio ma con la concessione degli arresti domiciliari e la possibilità di restare con i loro figli com’è accaduto in Belgio per Laura Passoni. Oggi non è più possibile. Le donne vengono sistematicamente fermate e indagate con l’accusa di associazione per delinquere in relazione con un gruppo terrorista. A Roissy vengono allontanate dai figli. Il giudice per le libertà conferma nella maggior parte dei casi la reclusione in attesa del processo. I bambini sono dati in affido famigliare e riescono a vedere la madre non più di una volta al mese, talvolta neppure quella. L’unica concessione riguarda i neonati sotto ai 18 mesi. Le autorità francesi prevedono che il piccolo possa restare con la madre. A Fleur- Merogis, il più grande carcere d’Europa, dove sono detenuti diversi ex combattenti dell’Isis e le loro mogli, esiste una nursery con alcuni piccoli di ritorno dalla Siria.
Pradel segue una quindicina di madri con figli sotto ai cinque anni, il più piccolo è un neonato di sei mesi. L’avvocato parla di «violenza istituzionale», «inutile accanimento delle autorità». Racconta di situazioni paradossali, come andare a cercare in urgenza un tiralatte per una sua assistita fermata e separata bruscamente dal figlio che ancora si nutriva dal seno materno. «Perché tanta brutalità?», si domanda. Mostra sul computer un campionario di minacce e insulti che riceve su Facebook. È così ogni volta che va in televisione a sostenere che la Francia dovrebbe mostrare un volto più umano nei confronti di questi bambini. È consapevole di andare contro la maggioranza dell’opinione pubblica. La pressione sociale sui magistrati è «enorme» secondo l’avvocato. Cita il caso di un gruppo di jihadisti partiti da Strasburgo nel 2013, quando l’Isis non era ancora considerato il nemico numero uno dell’Occidente. Il processo a questi jihadisti pentiti, rincasati dopo pochi mesi, si è svolto nella primavera 2016, quando era fresco il ricordo dei massacri del Bataclan. Le condanne in primo grado vanno da sei a nove anni di prigione. Il legale della difesa è convinto che se il processo si fosse svolto in un altro momento gli imputati avrebbero avuto una pena molto inferiore.
Il difficile ritorno
Oggi l’emergenza non è quella dei “revenants”, i ritornanti, come sono stati chiamati dal giornalista David Thompson, autore di uno dei migliori libri sul tema. Talvolta pentiti, più spesso delusi, per gli ex combattenti è diventato più difficile fare il viaggio attraverso la frontiera turca. Tra il 2013 e il 2016, 230 jihadisti sui circa 700 presenti nel Califfato hanno fatto marcia indietro. L’anno scorso, con le prime sconfitte militari, riuscire a fuggire è diventato quasi impossibile. Il temuto riflusso paventato dalle intelligence europee non è avvenuto. Solo 9 “revenants” sono stati registrati l’anno scorso nei dati ufficiali. Molti potrebbero essere stati uccisi nel conflitto. Un calcolo preciso delle morti francesi nella guerra in Siria non esiste, le liste più attendibili sono quelle diffuse periodicamente dai servizi segreti americani. Gli esperti dell’anti-terrorismo prendono con molta cautela le notizie di decesso diramate sui social network, spesso utilizzate per dissimulare la latitanza verso altri paesi della Jihad, dall’Afghanistan alla Malesia.
«Egregio Presidente Emmanuel Macron, mia sorella non vuole un salvacondotto. Chiede semplicemente di tornare in Francia ed essere processata nel suo Paese». Comincia così la lettera che Amine Elbahi ha mandato all’Eliseo. La storia di sua sorella assomiglia a quella di tante altre famiglie francesi. «Non ci siamo accorti di niente», «Mai avremmo pensato», «È successo tutto così in fretta». Amine è uno studente in Giurisprudenza, abita in uno dei quartieri più poveri di Roubaix, profondo Nord, da dove sono partiti molti giovani jihadisti. Una famiglia musulmana, precisa, non praticante. «Siamo sei fratelli, mia madre ci ha cresciuto da soli ma metteva sempre un posto in più a tavola per qualche invitato». Amine è volontario in diverse associazioni, vorrebbe che si parlasse di Roubaix non solo come città-ghetto, vivaio di tanti jihadisti, ma anche come modello di solidarietà e mutuo soccorso. «Anche se siamo uno dei comuni più poveri del Paese, da noi nessuno dorme per strada». Nell’agosto 2014 la sorella più giovane, 19 anni, è uscita di casa dicendo che andava al mercato. Due giorni dopo ha aggiornato il profilo Facebook con una foto dalla Siria. La ragazza aveva appena passato la maturità a pieni voti. Era in un «periodo di riflessione», non sapeva quale università scegliere. Un momento di sbandamento. Amine lo chiama con pudore “gap year”. «Niente di strano, accade a tanti giovani». Solo che l’anno sabbatico non si è concluso con l’ingresso in una facoltà.
Amine ha deciso di scrivere a Macron per disperazione. Negli ultimi mesi, con le sconfitte militari del Califfato, ha cercato di entrare in contatto con diverse istituzioni. Mai nessuna risposta, neppure dall’Eliseo. Come tante famiglie di francesi partiti in Siria si sente abbandonato dallo Stato. «Anche noi siamo vittime del terrorismo» sostiene Amine. «Mia madre non si è mai più ripresa, la nostra famiglia è distrutta». Dal febbraio scorso, sua sorella è rimasta vedova, sola con i figli di uno e due anni. «Avrebbe voluto tornare già un anno e mezzo fa ma poi è rimasta incinta, il viaggio era troppo pericoloso», racconta Amine pur ammettendo di non averla mai sentita esprimere un pentimento. Ai suoi occhi non significa nulla. «Ha sbagliato, lo so. Ma è cittadina francese e come tale deve rendere conto alla giustizia del nostro Paese». Il ragazzo ha smesso di ricevere messaggi dalla sorella quando è cominciata la battaglia di Raqqa, nell’autunno scorso. Pensa che sia ancora viva, prigioniera dei curdi, come altre ex mogli di combattenti dell’Isis.
Nelle immagini Margaux Dubreuil, 27 anni, sta allattando un neonato. Altri due bambini bivaccano nella stanza. L’intervista diffusa da France 2 all’inizio di novembre ha provocato uno choc nell’opinione pubblica. L’emittente di Stato è stata criticata per lo spazio concesso alla ragazza bretone convertita. Era la prima volta che una vedova dell’Isis appariva a volto scoperto, rivolgendosi direttamente al Paese dal quale è fuggita. Margaux indossa un lungo velo, s’intravedono le lacrime nei suoi occhi azzurri. Neppure lei sembra pentita, non rinnega le sue scelte. Ciò che la preoccupa è la sorte dei suoi tre figli. Non è la sola in mano ai soldati dell’Ypg, la milizia del Kurdistan siriano. Sarebbero almeno otto le vedove francesi nei campi di detenzione del nord della Siria. Anche loro hanno scritto a Macron una lettera, diramata attraverso il loro avvocati. «Presidente, lei deve sapere che siamo detenute in condizioni inammissibili. I nostri bambini innocenti non hanno fatto nulla e soffrono in un campo in cui rischiamo la tortura». Per il governo francese è un rompicapo. Se con l’Iraq esistono rapporti diplomatici ufficiali, non si può dire altrettanto delle fazioni del Kurdistan siriano, divise tra loro.
Diritti e diplomazia
Marie Dosé è nervosa. L’avvocato legge un sms di una delle vedove francesi che le ha appena scritto dal nord della Siria. È preoccupata perché le comunicazioni sono diventate sempre più difficili. La rete diplomatica francese fa finta che queste donne non esistano. «Se continua così – commenta il legale – dovrò andare in Kurdistan per risolvere la faccenda». Il governo cambia idea ogni giorno. Qualcuno ammette che bisogna fare una differenza tra le prigioniere detenute in Iraq, come Mélina Boughedir, e quelle presenti nei campi curdi. Anzi, no: è la stessa cosa, saranno tutte processate dalle autorità locali. Le famiglie si sentono sulle montagne russe. «Non sanno più a chi credere», commenta Dosé, quarantenne d’assalto, nota per le sue critiche al “populismo penale”, le condanne facili sull’onda emotiva, e alle “sospensioni dello stato di diritto” varate dopo gli attacchi terroristi. «Se snaturiamo noi stessi, la nostra democrazia, significa che hanno vinto loro, i terroristi».
Tutto si è complicato di nuovo con l’annuncio della cattura di Emilie Köning all’inizio di gennaio. La francese, nota per essere una reclutatrice dell’Isis, è inserita dagli americani in una delle liste dei jihadisti più ricercati. Emilie è apparsa qualche giorno fa in un video diffuso dall’Ypg. Rossetto leggero, felpa rosa, sostiene di essere trattata bene dai suoi carcerieri. A vederla così, sembra aver compiuto l’ennesima metamorfosi. Nata a Lorient, in Bretagna, figlia di un gendarme, si è convertita all’Islam a 17 anni. Ha cominciato a portare il velo integrale, rivendicare il suo fanatismo, quando ancora non esisteva il Califfato. In un documentario girato nel 2012 da una sociologa spiega il suo odio per la Francia, parlando dietro al burqa. «Quando incrocio dei militari in strada – diceva la ragazza – mi viene voglia di strappare la loro pistola e usarla».
Il portavoce del governo ha promesso che Köning, Dubreuil e le altre detenute in mano ai curdi non torneranno in Francia, risponderanno dei loro reati alla giustizia locale. «Davvero? E con quali magistrati, in quali tribunali?», domanda polemicamente l’avvocato Dosé alludendo alla totale mancanza di strutture istituzionali tra i curdi. «Capisco che il governo abbia paura di dire cose impopolari ma non si può neanche prendere in giro la gente». Il Kurdistan siriano non è uno Stato riconosciuto dalla Francia. I curdi, prosegue Dosé, vogliono utilizzare le detenuti francesi come moneta di scambio per ottenere un riconoscimento diplomatico. Con un’iniziativa inedita, gli avvocati Bourdon, Pradel e Dosé hanno appena presentato una denuncia per “omissione di soccorso” e “detenzione illegale”, basandosi su un articolo del codice penale. «L’inerzia consapevole delle autorità francesi – scrivono i legali – contribuisce a mantenere detenzioni illegali di madri e bambini, esposti a evidenti rischi, in particolare sul piano sanitario, in una zona di conflitto».
Lydie Maninchedda insegna in un liceo tecnico vicino a Lille. Un giorno ha deciso di raccontare ai suoi alunni che la figlia Julie, brillante studentessa di letteratura, aveva deciso di partire per la Siria. «Volevo allertarli, far loro capire che può succedere a tutti di essere manipolati, incontrare le persone sbagliate». La madre ha perso i contatti con Julie, ha ormai poche notizie. È costretta cercare informazioni tra Ong e avvocati di altre francesi. È diventato un piccolo mondo nel quale tutti si conoscono. Molte famiglie di jihadisti hanno gli stessi problemi, si scontrano agli stessi ostacoli, condividono anche la vergogna, il sospetto con cui vengono guardati o giudicati. Lydie è diventata nonna, ha tre nipotini nati in Siria. Per la Francia non esistono. Vengono considerati apolidi. Se e quando torneranno, la madre finirà in prigione. Per i bambini saranno sottoposti al test del Dna per stabilire l’identità dei genitori e poi il riconoscimento della nazionalità. È l’aspetto che preoccupa meno Lydie. «Spero di poterli un giorno abbracciare. Ho perso mia figlia, ma vorrei avere una seconda chance con i miei nipotini».
Le pratiche di affido dei minorenni di ritorno dalla Siria si fanno quasi tutte nel tribunale di Bobigny, competente perché le famiglie atterrano nell’aeroporto di Roissy, lontano meno di quindici chilometri. Il tribunale è un immenso casermone degli anni Settanta, il più affollato di cause dopo quello di Parigi, al centro del famigerato 93, il dipartimento di banlieue a nord della capitale con il record nazionale di reati. «Neppure Marsiglia è paragonabile a noi», osserva la procuratrice capo Fabienne Klein- Donati che chiede invano più mezzi. A Bobigny c’è ormai una procedura unica per tutti i figli di jihadisti. Non appena sbarcano sulla pista dell’aeroporto, vedono partire la mamma con la polizia e affidati ai servizi sociali. «È un momento abbastanza traumatico», riconosce la procuratrice capo. Nelle prime ore i piccoli vengono affidati a strutture specializzate dove psicologi, medici e operatori sociali procedono a una valutazione psicologica e sanitaria. Entro otto giorni, c’è una prima sentenza di affido, quasi sempre in un’altra famiglia rispetto a quella di origine.
«Dobbiamo essere prudenti», riconosce la procuratrice di Bobigny. Non è come per altri minorenni separati dai genitori. I giudici preferiscono accertarsi del contesto in cui è avvenuta la radicalizzazione delle madri, verificare che non ci siano parenti con una responsabilità anche indiretta. Il tribunale avvia una Mesure judiciaire d’investigation éducative ( Mjie), un indagine su nonni, sorelle, fratelli. Il passato famigliare viene passato al setaccio. È anche per questo che molti nonni o parenti sono prudenti nel parlare ai media: anche una dichiarazione sbagliata può essere decisiva per un giudice minorile. A complicare le cose, spiega la procuratrice di Bobigny, è spesso il conflitto tra le famiglie. Come nel caso dei figli di Mélina rimpatriati dall’Iraq a dicembre: i nonni paterni e materni reclamano entrambi l’affido. La procuratrice, che era allo Stade de France la notte degli attentati del 13 novembre, quando i tre kamikaze si sono fatti esplodere, è convinta che i bambini di ritorno dalla Siria possano essere reinseriti nella società. Non vuole sentir parlare di “bombe a orologeria” come ha detto il suo collega François Molins, il procuratore anti- terrorismo. «Il nostro dovere è proprio di recuperare questi bambini».
Dietro le quinte, i toni sono meno rassicuranti. «Il nostro sistema di protezione dell’infanzia non è adeguato», racconta la responsabile di un’associazione che si occupa di delinquenza minorile nella periferia di Parigi e ha seguito alcuni casi di minorenni radicalizzati. Chiede di non essere citata. Sostiene che molti operatori del servizio pubblico hanno paura a lavorare con questi bambini e le loro famiglie. Cita il caso di quattro fratelli, tra otto e sedici anni, tornati un anno fa con i genitori. Il padre aveva partecipato all’organizzazione degli attentati del Bataclan. «I servizi sociali hanno appaltato alla nostra associazione la valutazione psicologica perché tanti dipendenti pubblici si erano rifiutati di farla». L’incontro è avvenuto in un luogo neutro, protetto. Le autorità hanno poi avuto difficoltà a trovare famiglie affidatarie volontarie. «I fratelli sono stati divisi, una delle bambine è finita in un centro d’accoglienza d’emergenza. Insomma, un disastro». Il governo ha promesso di presentare a febbraio un piano per aggiustare alcuni problemi nell’accudimento di questi minorenni. Tra le ipotesi allo studio anche la creazione di un centro di detenzione specifico in cui le madri potrebbero restare con i figli.
Thierry Baubet è psicologo dell’infanzia e dell’adolescenza in un ospedale del nord di Parigi. Anche lui prende qualche precauzione, non vuole che si dica il luogo dove lavora. La sua équipe segue una trentina di minorenni tornati dalla Siria, compresi i fratellini rimpatriati a dicembre. Sono bambini che spesso non hanno conosciuto nient’altro che la guerra. Il paziente più piccolo è un neonato di tre mesi. I traumi sono quelli tipici dei bambini che hanno vissuto in zone di conflitto. Bombardamenti, assedio, prigione, una lunga e pericolosa fuga. Molte mamme, racconta lo psicologo, tentano di occultare la realtà per proteggere i loro figli. «Si comportano come nel film ‘ La vita è bella’». L’ultimo choc per questi bambini è la separazione dalle madri non appena mettono piede in Francia.
Nel gruppo di Baubet c’è anche una psicologa italiana. Alessandra Mapelli si è trasferita dalla provincia di Milano una decina di anni fa. Non ha avuto dubbi quando le hanno proposto di integrare l’équipe. «Il nostro compito è offrire le cure necessarie affinché questi bambini crescano nelle migliori condizioni affettive e psicologiche». Mapelli riconosce qualche difficoltà nell’attuale sistema. «Abbiamo proposto un accompagnamento psicologico per le famiglie affidatarie e gli operatori sociali. Queste situazioni possono infatti generare un effetto ansiogeno e paralizzante, dovuto anche all’attenzione mediatica che suscitano». L’équipe di Baubet ha una lunga esperienza nei traumi infantili. È intervenuta in passato in molte situazioni di crisi che hanno coinvolto minorenni, compresa l’assistenza a decine di famiglie dopo gli attentati del 2015. È un caso, o forse no. L’équipe di psicologi guidata da Baubet non è abituata a fare considerazioni politiche. Tantomeno distinzioni. I bambini sono vittime, sempre e comunque.