la Repubblica, 19 gennaio 2018
Sofia Goggia: La mia Olimpiade matura, ero stanca di fare la matta ora diventerò una cecchina»
CORTINA Quella mascalzona di Sofia non si basta più: «Non voglio più essere la Goggia che fa goggiate, sapete che intendo: i miei errori da matta scriteriata, giù a tutta sempre in bilico sul nulla, quella forte che butta la forza alle ortiche. Basta, quel tempo è passato. Adesso voglio dimostrare di essere brava e concreta, un’atleta matura».
Come una settimana fa a Bad Kleinkirchheim, in Austria: ha sequestrato la discesa col ghigno sulla bocca e gli sci impietosi sul ghiaccio. E comandato il primo triplete azzurro nella storia nella velocità femminile con Federica Brignone e Nadia Fanchini. «La libera più bella che abbia mai sciato in vita mia. Una gara per donne col fegato». Primo successo della stagione per la gioiosa bergamasca di 25 anni, il terzo di una carriera esplosa nel favoloso 2017 (13 podi in quattro discipline diverse), i primi due li celebrò con un inchino molto orientale nella primavera scorsa sulla pista coreana delle prossime Olimpiadi a febbraio. La chiamarono ninja.
«Se non accadrà ancora, significa che ho vinto nell’anno sbagliato. In verità l’unica cosa di cui sono curiosa è come mi sentirò al cancelletto ai miei primi Giochi. A cosa penserò e come staranno le mie gambe.
Se proprio devo scegliere, scelgo l’oro in discesa. Però prima c’è molto altro da fare.
Per esempio, battere Lindsey Vonn». La prima occasione oggi a Cortina dove la superstar americana, 33 anni, ha vinto 11 volte. Jeans neri strappati alle ginocchia, unghie di rosso rubino smaltate: «Non è per vanità, ma perché ho trovato una signora che me le fa gratis. In più, copro le ragadi del freddo. Sì, insomma, sono pronta a graffiare».
Non lo era più?
«Alla fine della stagione scorsa mi sono sentita un po’ decentrata. I risultati, la fama, le interviste, gli eventi. Non ero pronta ad affrontare il tutto, ho disperso molte energie. Non ho neanche una famiglia preparata: mio padre Ezio è ingegnere e pittore, mia mamma Giuliana professoressa di italiano al liceo. Cominciano adesso a capire la differenza tra una discesa e uno slalom e a rassegnarsi al fatto che ho scelto questa vita. Abbiamo scritto i dieci comandamenti per capire come comportarci con le richieste di stampa e sponsor.
Un manuale di sopravvivenza.
Quanto a me, curavo la Goggia, dimenticando Sofia».
Poi?
«A inizio stagione ero ingolfata.
A Sölden i polpacci pesanti, la mente scarica. C’erano molte aspettative su di me e anch’io ne avevo. Evidentemente mi sono bloccata. Confusa con e da me stessa, piena di conflitti. Tutto è cambiato il 31 dicembre».
A Capodanno?
«Quella notte sono tornata a piedi a casa a Bergamo prima della mezzanotte, dopo una serata da amici. Sono stata sveglia fino alle due, a pensare: devo diventare una cecchina, mirare al bersaglio. Ho visualizzato le Olimpiadi in quel momento, il momento dopo non mi sono sopportata più, non volevo essere quella esaltante e stramba che alla fine non conclude, non posso permettermelo. E allora via il superfluo, le distrazioni, i social.
Via tutto quello che mi avrebbe impedito di crescere. Io sono una che ha bisogno di evolvere e imparare. La stasi mi annoia».
Cos’ha scoperto di recente?
«Che bisogna avere una visione oltre che una visuale. Ho girato un video di una mia giornata tipo tenendo la telecamera in bocca. Il mio punto di vista, in senso stretto e lato. Vedo le cose così, a quella altezza, e me le divoro. Più in generale dico: io nella velocità ho atteggiamenti che pochi hanno. Questo lo devo mettere a frutto, non può essere solo un sentimento. Sì, battere la Vonn ancora, magari qui a Cortina, mi piacerebbe. Mi sento in forma, sento che è tornata la luce. Ho dovuto lavorare molto col corpo e con la mente. A Bergamo con Matteo Artina, il mio preparatore atletico che ha un approccio olistico all’allenamento, muscoli e testa non sono cose diverse. Oltre che con lo psicoterapeuta della nazionale Giuseppe Vercelli, mi ha seguita anche un’altra psicologa a casa, Lucia Bocchi, ex maestra di sci. E sto leggendo un libro di due sociologi, Giaccardi e Magatti, il titolo è “Voglio una vita…generativa”, parla del mettersi in gioco di fronte alle grandi sfide della contemporaneità, per continuare a produrre senso per noi stessi e per quelli che verranno. Sì, è una lettura che mi riguarda».