la Repubblica, 19 gennaio 2018
Un Guglielmo Tell che sembra Arancia Meccanica
Nel 2018 cadono i 150 anni dalla morte di Gioachino Rossini e Palermo lo celebra con Guillaume Tell. Il kolossal dell’opera romantica mancava al Massimo da più di mezzo secolo e non era mai stato rappresentato nell’originale francese. E a farne un evento da annali c’è di più.
La regia è del veneziano Damiano Michieletto, enfant terrible della lirica. Ogni volta le sue trasposizioni contemporanee e la sua visione iconoclasta spaccano pubblico e critica, conservatori e trasgressivi, filologi e visionari. Qui lo conoscono già per la prima italiana nel 2011 di The Greek Passion di Bohuslav Martin?, con i greci in lotta per l’indipendenza come gli svizzeri del Tell, e per un Elisir d’amore del 2012 ambientato in spiaggia.
L’allestimento è quello del 2015 per la Royal Opera House al Covent Garden. Non il Medioevo ma un Novecento atemporale, folle oppresse, soldati con mitra, uniformi austro-nazi. A Londra il debutto dà scandalo. La festa di jodel del terzo atto degenera in uno stupro di massa. Le pistole sono usate per seviziare. Le melodie rossiniane tornano a fare da sfondo all’ultraviolenza come in Arancia meccanica. Il pubblico ulula e invoca i tagli, il teatro è costretto ad alzare il rating di censura. Noi italiani invece siamo meno puritani: keep calm, a Palermo vedremo tutto. Gli aggiustamenti riguardano più che altro la parte musicale e sono stati decisi con il direttore Gabriele Ferro per snellire il gigante rispetto alle cinque ore e mezza necessarie a farlo dalla prima nota all’ultima. Si segue l’edizione critica, ma con un colpo ai balletti e una sforbiciata qua e là e si arriva alla pur ragguardevole durata di quattro ore e un quarto. A centro scena troneggia un gigantesco albero da tre tonnellate, elemento simbolico immanente. Tutto il palco è ricoperto di terra vera, simbolo materico del legame fra sangue, suolo e patria.
Tenete d’occhio il cast. Protagonista è il baritono Roberto Frontali, già acclamato Macbeth nella scorsa stagione. Il soprano Nino Machaidze è la principessa asburgica Mathilde, il tenore Dmitry Korchak è il congiurato Arnold. Tutti e tre sono al debutto nel ruolo ma provengono da solide esperienze rossiniane. Del resto come si può pensare di approdare al Cantone di Uri senza passare per il Rossini che precede? L’ultima opera del pesarese è l’upgrade della sua vocalità, l’apogeo di una carriera sfolgorante, la porta spazio-temporale che conduce oltre le soglie astrali del melodramma romantico.
Fra il battesimo con la Cambiale di matrimonio nel 1810 e il debutto del Tell all’Opéra il 3 agosto 1829 passano appena diciannove anni. Ma tanto gli basta per dare il giro al banco. Tedeschi come Carl Maria von Weber o Heinrich Marschner su certe cose arrivano prima perché nascono assieme al Romanticismo e hanno nel sangue i geni sinfonici di Haydn e Beethoven. Due italiani a Parigi, Luigi Cherubini e Gaspare Spontini, aprono altre strade perché aggiornano gli esperimenti drammatici tardo-settecenteschi di Gluck. Rossini invece cresce nel brodo del melodramma metastasiano.
Barocco estremo, fatto d’affetti e convenzioni, regolato da un’alternanza scintillante ma meccanica di recitativi e arie. Con una rapidità piovuta da una galassia dove un anno ne vale quattro, sgretolerà questo sistema dall’interno.
L’orchestra diventa polposa e folta di timbri. Il tessuto sinfonico denso e strutturato. Arie e concertati sempre più estesi e interconnessi. Il coro si fa popolo, motore drammatico e protagonista collettivo: e Va’, pensiero è già lì.
Abbandonata l’algida tragedia neoclassica, le fonti del libretto sono il dramma Wilhelm Tell di Friedrich Schiller e il racconto La Suisse libre di Jean-Pierre Claris de Florian, adattati da Étienne de Jouy e Hippolyte-Louis-Florent Bis. Le password si chiamano terra e libertà, amore-dovere, morali austere e passioni proibite.
Pennello e rasoio di Figaro si scoprono capaci di tracciare una natura primordiale fatta di laghi e montagne, temporali, arcobaleni e boschi solcati dal richiamo dei corni. Rossini dà il via a un nuovo genere, il Grand-Opéra, e consegna ai Romantici l’opera del futuro. Non ne scriverà altre. Come un bomber che segna il goal della vita, rientra da campione nello spogliatoio e appende le scarpette al chiodo. Per trent’anni il melodramma europeo farà i conti con Tell. Se ne ricorderà, tanto tempo dopo, un collega più giovane quando andrà a riverirlo nel grande appartamento della Chaussée d’Antin. Uno che di musica dell’avvenire se ne intendeva. Si chiamava Richard Wagner.