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 2018  gennaio 19 Venerdì calendario

Più pensioni e più precari. L’Italia delle generazioni divise

ROMA «Ancora troppi giovani lasciano il nostro Paese per migliori opportunità all’estero» ha detto ieri uno sconsolato Pier Carlo Padoan. Il ministro dell’Economia, però, un istante dopo avrebbe dovuto chiedersi cosa abbiamo fatto (e in nel plurale maiestatis è compreso anche lui, come ogni altro suo predecessore degli ultimi decenni e tutti noi in qualità di nonni e di genitori) perché questa fuga non si verificasse. La risposta (desolante) è nei numeri squadernati sempre ieri dall’Inps, che incrociando il quadro previdenziale e quello occupazionale confermano, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come il nostro non sia ( più) un Paese per giovani. Senza se e senza ma.
Nei primi undici mesi del 2017 sono stati attivati 1,43 milioni di contratti a tempo indeterminato ( comprese le trasformazioni), per un calo del 4,48% sullo stesso periodo del 2016; le cessazioni di contratti stabili hanno superato le assunzioni, toccando quota 1,45 milioni. Si è distinto, in particolare, un novembre “nero”: appena 88.815 contratti stabili firmati (-30,3%) sul novembre 2016. Per trovare un segno più bisogna passare al lavoro precario, e non è evidentemente una bella notizia: tra gennaio e novembre dello scorso anno sono stati firmati 4,4 milioni di contratti a termine, 910mila in più (+ 26%); in crescita del 23,9% le assunzioni con contratto di apprendistato e del 21,4% di quelle stagionali; boom dei contratti a chiamata (+ 119,2% a quota 392mila). Un combinato disposto di lavoro flessibile e di lavoro stabile che ha prodotto, come sottolinea lo stesso Inps, «la compressione dell’incidenza dei contratti a tempo indeterminato sul totale delle assunzioni: 23,4% nei primi undici mesi del 2017 mentre nel 2015, quando era in vigore l’esonero contributivo triennale per i contratti a tempo indeterminato, la quota di assunzioni stabili era stata del 38,8%». E su questo riferimento agli incentivi andrebbe aggiunta una ulteriore riflessione: cosa accadrà quando, da marzo prossimo, entreranno in gioco i contratti che oltre a non beneficiare più dello sconto contributivo, saranno anche privi dello “scudo” dell’articolo 18 (l’abolizione, ricordiamolo, è entrata in vigore con il relativo decreto attuativo nel marzo del 2015)? Il rischio è che molte imprese valutino meno costoso licenziare pagando il risarcimento ( e poi magari procedere a riassunzioni), piuttosto che mantenere un contratto a tempo indeterminato. Staremo a vedere, ma certo la passione degli imprenditori italiani per i contratti a termine ( certificata dall’Inps) è più di un indizio.
Perché mai, dunque, un giovane dovrebbe scommettere su questo Paese? Un’altra, sconsolante risposta è nei numeri sulle pensioni: quelle di chi già ce l’ha, di chi ce le avrà e di chi le intravede a malapena nel proprio orizzonte esistenziale. Ancora i dati Inps sul 2017: a parte gli “invisibili” del Paese – gli over 65 «in stato di bisogno economico» fotografati dai 43.294 assegni sociali erogati, in crescita del 17% – ci sono le 516.706 pensioni liquidate con decorrenza 2017, aumentate del 6,3% rispetto al 2016 quando erano cambiati i requisiti per l’accesso alla pensione e le uscite erano rimaste al palo. Sempre nel 2017 si è registrato un incremento del 7,1% dell’assegno medio erogato ( 1.039 euro). Dunque, la ripresa di una dinamica che, in mix con la marcia indietro della natalità, fa traballare un sistema previdenziale a ripartizione come quello italiano. «È evidente che ci troviamo di fronte ad un dualismo generazionale dispiegato su molti fronti – riflette Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt -. Innanzitutto nella tipologia contrattuale, con il lavoro a termine dei giovani e i più anziani tutelati dalla stabilità; poi nei livelli salariali, anche questi penalizzanti per le nuove generazioni; infine nel sistema previdenziale che sta vedendo saltare gli equilibri. Il combinato disposto di questi fattori, nega il futuro ai giovani: perché il futuro è fatto di famiglia, mutui, figli, ma oggi certe cose se le può permettere solo chi ha uno stipendio alto e stabile». Insomma, non basta più ripetere, come in un mantra, che sono troppi i giovani che lasciano l’Italia.