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 2018  gennaio 19 Venerdì calendario

Trump, il rientro della Apple per festeggiare l’anno incredibile

New York Un anno di Donald Trump: presidenza inaudita, rivoluzione permanente. Lacerante, provocatorio, i suoi primi 12 mesi erano già racchiusi nel discorso “dark” di quell’Inauguration Day, 20 gennaio 2017, all’insegna della parola «carneficina» con cui lui descriveva un’America allo sbando. Se ha sorpreso è perché mantiene le promesse: anche quando sono abominevoli per oltre metà della nazione ( che non lo votò). Non ha fatto nulla per allargare il suo consenso, si è curato soprattutto di consolidare il suo zoccolo duro, minoritario ma fedele. L’economia che va a gonfie vele è il punto forte al suo attivo. L’isolamento internazionale è tale solo in alcune parti del mondo. Il danno forse più grave è quello inferto allo stile della presidenza, al tono del discorso pubblico, alla moralità e all’unità della nazione, al rispetto dell’altro. Potrebbe avere solo 9 mesi per continuare così, se porta il partito repubblicano a perdere la maggioranza al Congresso nelle elezioni del 6 novembre.
ECONOMIA
La crescita supera il 3%, la Borsa polverizza un record dietro l’altro, l’occupazione aumenta. Aveva ereditato un’economia risanata da Barack Obama, con lui però c’è un’accelerazione. Arrivano finalmente segnali di una ripresa anche nelle buste paga. Il successo maggiore è la riforma fiscale. Iniqua perché favorisce soprattutto i profitti delle imprese la cui tassazione scende dal 35% al 21%, o al 15,5% nel caso di rimpatrio dei capitali parcheggiati all’estero. Però il meccanismo “reaganiano” dà i primi benefici. Eclatante il caso di Apple che paga 38 miliardi di simil- condono e riporta a casa quasi 300 miliardi di investimenti. Fiat- Chrysler chiude una produzione in Messico e la riporta nel Michigan. Lo aiuta anche l’indebolimento del dollaro che concorre a migliorare la competitività. Invece ha fatto poco sul fronte del protezionismo. Niente superdazi contro le importazioni cinesi o messicane. Si è limitato a cancellare l’accordo di libero- scambio con l’Asia- Pacifico, quel Tpp che peraltro anche i democratici contestavano. Il cantiere del protezionismo potrebbe essere il prossimo: dalla revisione del Nafta ( mercato unico nordamericano) alla battaglia contro Pechino sulla concorrenza sleale ( furto di proprietà intellettuale, mancanza di reciprocità nell’apertura dei mercati).
POLITICA ESTERA
Ha demolito sistematicamente ciò che aveva fatto il suo predecessore: i primi passi di disgelo con Iran e Cuba. Ha minacciato guerra in Corea. Ha riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele. Ha tentato un’intesa a tutto campo con Vladimir Putin – di certo accelerando il ritorno d’influenza russa in Medio Oriente – però è stato trattenuto dai timori di avallare i sospetti sul Russiagate. Ondivago con Xi Jiping: minacce e omaggi si alternano. La vanità di Trump lo rende vulnerabile, quei leader stranieri che l’hanno capito ( Xi, Abe, Macron) lo lusingano e ne catturano la simpatia. Ha rinunciato a essere il portatore di un’egemonia Usa sulla globalizzazione, ma non è riuscito a diventare il leader riconosciuto del nuovo fronte sovranista ( vedi il gelo con Theresa May). Il soft power ideologico dell’America è in ritirata tra i vecchi alleati europei. Lui però ha rafforzato altre alleanze: da Israele all’Arabia saudita, dall’India al Giappone. In un mondo dove i nazionalismi populisti erano già all’attacco, i simpatizzanti esteri di Trump non mancano.
AMBIENTE
È il terreno su cui la distruzione delle riforme di Obama è stata implacabile. La denuncia degli accordi di Parigi ( che sarà operativa solo alla fine del suo mandato quadriennale) è l’aspetto simbolico. La sostanza è altrove. Ha cancellato con ordini esecutivi gran parte delle normative che imponevano limiti alle emissioni carboniche per le auto, i camion, le centrali elettriche. Ha autorizzato il maxi- oleodotto XL Keystone dal Canada al Golfo del Messico che Obama aveva vietato. Ha liberalizzato le trivellazioni costiere. Ha sferrato un attacco ai parchi nazionali, alcuni dei quali rischiano di essere amputati di una parte dei loro terreni per darli in concessione a privati. Ha elargito aiuti alle miniere di carbone. Ha depotenziato sistematicamente l’authority per la protezione dell’ambiente, scatenando al suo interno una caccia alle streghe contro gli esperti che non condividono il negazionismo sul cambiamento climatico. Il ritorno all’indietro è talmente brutale da cancellare riforme che risalgono agli stessi repubblicani, da Richard Nixon a George Bush padre. Anche qui è fedele alle promesse fatte in campagna elettorale – gli valsero voti preziosi in alcune circoscrizioni minerarie – ma non con l’andamento dei mercati e del business: le energie rinnovabili continuano ad avanzare.
IMMIGRAZIONE
È cambiato più il tono della sostanza. Di vere riforme ne ha fatte poche. C’è il Muslim Ban, che sospende i visti d’ingresso per i cittadini di sei paesi a maggioranza islamica: dopo diverse bocciature da parte della magistratura ordinaria e d’appello, nell’ultima versione è stato ammesso dalla Corte suprema ed è in vigore. Poca cosa, però. Non c’è ancora il Muro col Messico, simbolo potente della sua campagna elettorale. Lui stesso lo ha ridimensionato: arriverebbe a fortificare la metà del confine meridionale. Sta cercando di negoziarne i finanziamenti con l’opposizione democratica in cambio di qualche concessione ai Dreamer (immigrati senza documenti, ma cresciuti negli Usa). Le espulsioni-deportazioni sono in aumento rispetto all’Amministrazione Obama, ma solo per effetto di un’applicazione più severa delle leggi pre-esistenti. L’insulto razzista contro «quei cessi di paesi» africani o latinoamericani che mandano immigrati nasconde un altro messaggio: vorrebbe tornare a un sistema di selezione per quote etnico- nazionali e professionali, che l’America applicò fino agli anni 60 (anche sotto presidenti democratici).
GLI SCANDALI
L’inchiesta sul Russiagate deve ancora dimostrare che ci sia stata una collusione fra Trump in persona e la Russia, al fine di manipolare l’elezione del 2016. Non è detto che arrivi fino a lui ma potrebbe inguaiare figlio e genero, scatenando impulsi di vendetta in Donald. C’è inoltre il sospetto di “ostruzione alla giustizia” che grava sul presidente. L’impeachment resta altamente improbabile. Ma l’impatto morale della presidenza è pesante sul clima della nazione: le bugie sistematiche, le aggressioni agli avversari e alla stampa, lo sdoganamento del razzismo. L’autorevolezza della figura presidenziale è svilita dal suo stile dirompente. Finora il movimento delle donne contro le molestie sessuali non lo ha scalfito: l’elettorato di destra gli ha perdonato tutto. Resterà profondo l’impatto delle sue numerose nomine ai vertici della magistratura ( Corte suprema inclusa) che spostano a destra l’asse della giustizia americana. Ma l’era del suo potere assoluto può avere i mesi contati: nelle ultime consultazioni elettorali i repubblicani hanno perso.