Corriere della Sera, 19 gennaio 2018
Simbolo, certezza. Il mito dell’oro
Monete virtuali come Bitcoin, ma anche Ether, Ripple. Obbligazioni, titoli di Stato, azioni, derivati finanziari. Polizze, Pir (piani individuali di risparmio), fondi comuni. Lo stesso semplice contante, il denaro. Eppure in economia il re unico e incontrastato resta uno soltanto. Il simbolo più potente. L’emblematica immagine della ricchezza, tramandato da miti e favole dal re Mida a Giasone a Danae. L’oro. Ecco perché un banchiere centrale come Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni-Ivass ha scritto un libro intitolato proprio Oro (il Mulino). Abituato a occuparsi di numeri, ma dotato di quella cultura trasversale che ne fa uno degli intellettuali ed economisti più acuti del nostro Paese, Rossi usa il metallo giallo per raccontare una storia che è la storia delle comunità, dello sviluppo delle nazioni, dell’allocazione delle risorse, dell’economia insomma, che ha iniziato a muoversi e si muove grazie a un motore troppo spesso dimenticato, o perlomeno dato per scontato, che si chiama «fiducia».
Non usa il linguaggio del club degli economisti. Un club i cui vizi, soprattutto di linguaggio, John Lanchester ha svelato in un divertente pamphlet del 2014 edito della Faber & Faber How to Speak Money. Così come nei suoi precedenti libri (l’ultimo Che cosa sa fare l’Italia, con Anna Giunta, Laterza) Rossi preferisce parlare a chi le pagine economiche dei quotidiani non le frequenta spesso, convinto che attraverso aneddoti e racconti il sapere si diffonda in modo più divertente e veloce. «Chi possedeva un pezzetto (di oro…), fosse sotto forma di moneta o ornamento, sapeva di poter avere fiducia, di potersi fidare del fatto che chiunque altro avrebbe accettato quel pezzetto di metallo in cambio di altri beni utili, in qualunque angolo del mondo conosciuto, nel tempo presente ma anche nel futuro». Il denaro è sembrato, con quel suo essere l’esempio più estremo e plastico della fiducia, soppiantarne la funzione. E per l’oro l’incontro con un bene «terzo, neutro che tutti accettano in cambio dei propri beni» poteva rappresentare la fine. Così non è stato. Nemmeno quando la finanza che tutto è parsa ingoiare l’ha gettato nel mondo arcaico e poco sexy delle commodity.
Dell’oro non sanno fare a meno i risparmiatori frastornati da mercati volatili che in preda a demoni sconosciuti e incompresi oscillano senza ragioni apparenti. Ma non ne fanno a meno anche le banche centrali. Anzi. In questo c’è un primato che l’Italia, più abituata a deridersi e a sottovalutarsi che ad apprezzarsi, può vantare. La Banca d’Italia è il quarto detentore al mondo di riserve auree, dopo la Federal Reserve americana, la Bundesbank tedesca e il Fondo monetario internazionale. 2.452 tonnellate, racconta Rossi che ha avuto e ha il privilegio di aver «visto» l’oro italiano. Solo una parte però, perché a Palazzo Koch, sede dell’istituto di vigilanza, ci sono «solo» 1.100 tonnellate, il 45%. Un altro 43%, 1.062 tonnellate sono negli Stati Uniti, 149 sono in Svizzera, altre 141 sono nel Regno Unito. Perché non sono in Italia? E perché in quei Paesi? Il motivo è semplice: costa ed è complesso trasportare l’oro da dove magari lo si è comprato al proprio Paese. Si pensi solo ai problemi di sicurezza che porrebbe. Nel 2012 la Germania decise che almeno la metà (come l’Italia) del suo oro dovesse essere conservato sul suolo tedesco. L’operazione però si è conclusa solo lo scorso agosto.
Ma quanto valgono le riserve auree italiane? Circa 87 miliardi di euro. Oltre 90 miliardi di dollari sotto forma di lingotti, la maggior parte a sezione trapezoidale con un peso che va da un minimo di 4,2 a un massimo di 19,7 chili, ci sono anche 4 tonnellate di monete (900 mila pezzi). E perché ce le teniamo? Per lo stesso motivo per il quale nei mesi caldi successivi all’8 settembre del 1943 si tentò di nasconderne la metà custodita nelle «sacrestie» della Banca d’Italia. Il caveau, enormi stanze vuote ma circondate da intercapedini nei quali si sarebbe potuta preservare la riserva dai possibili raid (che avvennero) dei tedeschi. Perché, come scrive Rossi, l’oro è come l’argenteria di famiglia, l’orologio prezioso del nonno: l’estrema risorsa in caso di crisi. Un’altra prova la si ebbe negli anni Settanta.
In un clima politico e sociale che in quegli anni si stava inasprendo, l’Italia veniva vista come un Paese poco sicuro. Iniziò una fuga di capitali verso l’estero. La crisi petrolifera aveva proiettato il mondo intero in un clima di incertezza mai affrontata prima. Ma era il nostro Paese a fare da vaso di coccio. La Banca d’Italia in quei mesi si risolse a chiedere un prestito per tamponare le falle aperte dalla fuga dei capitali nelle riserve ufficiali. Solo i tedeschi erano disposti a concedercelo. Ma su pegno di oro. Il 31 agosto del 1974 si firmò il contratto. Restituimmo tutto quattro anni dopo. Il nostro Paese ne fu segnato nel bene e nel male. Ma fu grazie a quel metallo custodito nelle sacrestie di Palazzo Koch, un metallo che non arrugginisce e non si altera nel tempo e cioè è «incorruttibile», che il nostro Paese si salvò.