il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2018
Pentagon Papers: le balle di Johnson & C. svelate da un marine
Continuando a puntare al cuore di un’America che non c’è più – e che Donald Trump, a suo parere, contribuirebbe a seppellire – Steven Spielberg in The Post racconta una storia d’indomita indipendenza dell’informazione, di brava gente impegnata a tenere a bada il male della politica e di parità tra i sessi in un momento storico in cui era l’oggetto d’una ruggente battaglia civile. Partendo dallo script d’una giovane autrice sconosciuta, Liz Hannah, opportunamente adattato dal veterano di sua fiducia Josh Singer (Il Caso Spotlight), Spielberg delega alla coppia reale Meryl Streep e Tom Hanks il compito d’incarnare Katherine Graham, proprietaria suo malgrado del Washington Post e Ben Bradlee, il direttore della testata che arde dal desiderio di trasformare il Post da giornale di provincia in capofila nazionale. L’occasione arriva durante una settimana del 1971, nel corso della quale a Graham e Bradlee si richiede una decisione difficile: il New York Times ha infatti interrotto, su ingiunzione del tribunale dopo una richiesta governativa, la pubblicazione dei Pentagon Papers, il dossier secretato del Dipartimento della Difesa che ricostruisce il ruolo effettivo degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam.
Il divieto di pubblicazione investe il New York Times, che ha già pubblicato tre puntate di estratti del dossier. Ma la staffetta delle rivelazioni, coi rischi connessi, può passare a un altro quotidiano, nel caso riesca a entrare in possesso dei materiali riservati. Basandosi sull’autobiografia della Graham Personal History (1997), il film di Spielberg ricostruisce quei giorni di trattative, intrighi e dubbi etici, provocati dalla clamorosa fuga di notizie perpetrata dal funzionario del Pentagono Daniel Ellsberg, ex marine laureato ad Harvard. Ellsberg non agisce principalmente in odio alle politiche dell’allora Segretario alla Difesa Robert McNamara, che pure attraverso i media si ostina a raccontare agli americani che la guerra in Vietnam va benissimo, pur sapendo che le cose stanno diversamente. La scelta di Ellsberg – per la quale verrà accusato di alto tradimento, spionaggio e traffico di documenti riservati – è stata piuttosto provocata dalla convinzione che Richard Nixon, che all’epoca va verso l’epilogo della sua presidenza, sia tutt’altro che intenzionato a mettere fine alle ostilità nel sud-est asiatico, avendo piuttosto in mente invece di elevare il livello dello scontro, ovvero i bombardamenti e i massacri. Ellsberg comincia la sua crociata accordandosi col cronista del NY Times Neil Sheehan e quando questi viene silenziato dalle ingiunzioni della corte, farà in modo di foraggiare il Post, che nel frattempo ha assunto su di sé la missione. Ed ecco il primo “colpo”: “Documenti svelano l’impegno americano nel ritardare le elezioni in Vietnam nel ’54”. Era il 18 giugno 1971. A seguire una serie di altri scoop. Con le trame Usa svelate: dal colpo di Stato che porta all’uccisione del presidente Ngo Dinh Diem (“Per il colpo di Stato militare contro Diem, gli Usa autorizzarono e incoraggiarono a partire dall’agosto del ’63 i generali golpisti vietnamiti”). Fino alle tre categorie con cui la Cia ha “catalogato” le operazioni militari: “1) raid congiunti Usa e aviazione subvietnamita contro rifornimenti dei vietcong; 2) raid oltre confine sempre contro i rifornimenti vietcong condotti da unità sudvietnamiti e consiglieri militari americani; 3) bombardamenti su obiettivi nordvietnamiti con aerei in incognito condotti esclusivamente da piloti non americani”.
Fin qui i fatti. Ma qual è la sostanza di questa storia che racchiude in sé tanti principi fondativi dello spirito americano, al punto da farne una parabola esemplare? Che cos’erano effettivamente quei Pentagon Papers e perché hanno assunto quella dimensione catartica, quel minaccioso potere di sovvertire l’ordine nazionale? All’origine del tutto siede il più semplice e invocato dei principi americani: la verità. In quella risma di fogli fotocopiati dagli originali, si ricostruisce l’effettiva natura delle intenzioni di chi ha voluto quella guerra e si disegna uno scenario ben diverso da quello al quale i cittadini d’oltreoceano sono stati indotti a credere.
Ecco allora lo scontro tra chi vuole diffondere la verità, per riscattarne il valore e chi impedisce la sua conoscenza, che stavolta è proprio l’uomo delegato a guidare la nazione: il clash perciò diviene epocale. Questa è la motivazione profonda che ha spinto un americano “classico” come Spielberg a buttarsi a corpo morto nell’impresa, al cospetto delle lampanti risonanze tra le tattiche di manipolazione della verità che furono di Nixon e quelle contemporanee di Donald Trump, e dunque alla presenza di un duplice e paragonabile disprezzo di un concetto fondativo. Quando l’America prende coscienza di ciò che raccontano i Pentagon Papers, per la prima volta può compiutamente riflettere su quel concetto di “sicurezza nazionale” interpretato in modi così diversi dall’uomo della strada e dalle personalità di potere, ora indifferenti alla menzogna e all’inganno. Del resto è lo stesso Bob McNamara, originatore di questa vicenda, a offrire alla Graham la motivazione della sua iniziativa: “Nixon è un figlio di puttana”. Buon motivo per commissionare quel grande lavoro riservato, il cui titolo originale era “Relazioni Stati Uniti-Vietnam, 1945-1967: uno studio realizzato dal Dipartimento della Difesa”. Per realizzarlo McNamara dà vita, nel giugno del ‘67, alla Vietnam Study Task Force, col mandato di “scrivere una storia enciclopedica della guerra in Vietnam” che offra ai posteri una ricostruzione utile a non ripetere gli errori commessi. L’iniziativa di McNamara è a titolo del tutto personale e di essa non vengono informati né l’allora presidente Lyndon Johnson, né il Segretario di Stato Dean Rusk, mentre oggi si suppone fosse intenzione di McNamara fornire quel rapporto dal deflagrante potenziale politico all’amico Robert F. Kennedy, in corsa per la nomination democratica 1968.
Tre anni più tardi, leggendo i Papers gli americani si trovano di fronte al fatto compiuto: l’Amministrazione Johnson ha mentito sistematicamente su quanto accadeva in Vietnam. Le carte rivelano l’ampliamento segreto delle azioni militari nel teatro bellico, nonché i bombardamenti nei confinanti stati del Laos e della Cambogia, oltre ai raid sulle coste nordvietnamite. Sono i risvolti di quella che una copertina di Time dell’epoca chiama “La guerra segreta” dell’America, analizzati dal gruppo di specialisti reclutati da McNamara: un think tank formato da una trentina tra ufficiali in servizio, docenti universitari e storici, con pieno accesso ai file del Pentagono e senza contatti con le agenzie federali che avrebbero messo a repentaglio la segretezza dell’operazione. Nel febbraio 1968, mentre il dossier è ancora il allestimento, McNamara lascia il Dipartimento della Difesa. Toccherà al suo successore, Clark Clifford, ricevere, nel gennaio ‘69, appena prima del giuramento di Nixon, il risultato di quello sforzo: 47 volumi, classificati “segretissimo”, che Clifford, peraltro, sosterrà di non aver mai consultato.
Dalle carte emerge come lo scopo principale della guerra in Vietnam sia il contenimento della Cina, tenuta sotto scacco mantenendo attivi diversi fronti: quello Giappone-Corea, quello India-Pakistan e appunto il fronte del sud-est asiatico, ai quali va aggiunta l’immanente presenza sovietica. Emerge come Johnson, sebbene parlasse della guerra in Vietnam come della difesa della nazione amica del Vietnam del Sud, indipendente e anticomunista, fosse in realtà intenzionato, come scrive lo stesso McNamara in un memo “non ad aiutare una nazione amica, ma a contenere la Cina”. Una visione che fa del Vietnam il luogo di uno scontro che la Casa Bianca, nelle sue strategie, proietta altrove. Concezione questa che viene da lontano, fin dall’Amministrazione Truman e dagli aiuti alla Francia nella prima guerra d’Indocina, attraverso il ruolo giocato da Eisenhower nel ’54 nella rottura degli accordi di Ginevra e nel sostegno al Vietnam del Sud per l’elezione a presidente di Ngo Dinh Diem, quindi attraverso le entusiastiche dichiarazioni di supporto pronunciate da JFK verso Saigon quasi in coincidenza con l’omicidio di Diem, fino alle prime manovre sotto copertura varate da Johnson contro i nordvietnamiti e alla successiva espansione delle operazioni, in contraddizione coi principi da lui stesso enunciati durante la campagna elettorale del ’64 (“Non vogliamo una guerra più grande”).
Una nota della Difesa di quegli anni così percentualizza l’escalation della guerra in Vietnam: “Lo facciamo al 70% per evitare un’umiliante sconfitta. Al 20% per sottrarre il Vietnam del Sud al controllo dei cinesi. Il 10% per dare ai sudvietnamiti una vita libera. Ma soprattutto: per uscire da questa crisi con le mani pulite”. Gli effetti dai primi articoli pubblicati da NY Times si faranno sentire: proteste di strada, rovente dibattito politico. Il 29 giugno ’71, mentre il Washington Post ha già cominciato la sua serie di pubblicazioni, il senatore democratico Mike Gravel mette i Pentagon Papers (editate tra gli altri da Noam Chomsky) agli atti della sottocommissione che dirige. Ellsberg si consegna alle autorità, confessando d’essere l’autore della fuga di materiali: “Sono un americano responsabile e non posso cooperare oltre nell’inganno dell’opinione pubblica”.
Nel ’73 tutte le accuse contro di lui cadranno. Nel frattempo l’Amministrazione Nixon è travolta dalla tempesta perfetta del Watergate e su quelle storie di Vietnam già si riverberano i chiaroscuri del passato. I Pentagon Papers verranno declassificati nel 2011 e rese pubbliche in una cerimonia tenutasi paradossalmente alla Biblioteca Presidenziale Richard Nixon di Yorba Linda, California. Ormai sono materia da cinema hollywoodiano. Non fosse che certe incontrovertibili somiglianze con quanto accade in questi mesi renda l’argomento, la storia e anche i suoi eroi (Ellsberg non sembra il papà di Edward Snowden o di Chelsea Manning?) di perfetta, angosciosa attualità.