La Stampa, 19 gennaio 2018
Alla Triennale di Milano viaggio nel ventre di Rick Owens
La Triennale di Milano è forse una delle poche, se non l’unica, istituzioni pubbliche dedicate alla contemporaneità in Italia a svolgere il suo ruolo con logica e consistenza attraverso un programma che abbraccia tutti quei campi che oggi ogni museo di arte contemporanea che voglia dirsi tale dovrebbe abbracciare: arte, architettura, design, moda. Per quest’ultima disciplina la Triennale prevede ogni anno una mostra negli spazi a ferro di cavallo del pianterreno dedicate a designer di moda viventi ed indipendenti, nel senso che non fanno parte del gotha dei grandi marchi, ai quali viene data totale libertà.
Lo scorso anno era stato il turno di Antonio Marras che aveva presentato un bellissimo progetto svelando aspetti della propria creatività sorprendenti. Questa anno è il turno di Rick Owens, 55 anni americano di Los Angeles da anni trapiantato a Parigi. La sua mostra (fino al 22 marzo) è la prima retrospettiva sul suo lavoro di venticinque anni di carriera. Owens è, anche se a lui non piace sentirlo dire, un nome «cult» nel mondo della moda. Le sue sfilate sono spesso surreali e dadaiste e la domanda «ma chi si veste cosi?» viene automatica. Invece nel suo piccolo mondo il suo nome fattura più di 140 milioni l’anno, non certo i miliardi di Lhmv, Prada o Kering ma sicuramente una nicchia più che dignitosa di clienti.
Se nella mostra di Marras la luce era teatrale e anche un po’ tenebrosa in questa di Owens lo spazio è stato riportato alla sua condizione originale con le grandi finestre alte riaperte per consentire alla luce naturale di invadere l’archiettura come era stata concepita nel 1933 dal suo architetto Giovanni Muzio. Ma l’umore cavernicolo e tenebroso non manca nemmeno qui. Prima di tutto lo stesso Rick Owens che a vederlo sembra un misto fra gli attori che venivano usati da John Ford negli Anni 50 per fare la parte degli indiani cattivi nei suoi film western e un membro di un gruppo rock industriale tipo Nine Inch Nails. Ma potrebbe anche essere uscito fuori dal film Mad Max o Il signore degli anelli.
Nella mostra si entra come se lo spettatore fosse un modello di una delle sue sfilate, abbagliato dai fari della passerella. In mezzo alle vetrine e ad i manichini che indossano gli abiti dello stilista, si snoda una struttura nera che occupa tutta la lunghezza della galleria. L’aspetto non è dei più attraenti anche se talvolta appare come un pianeta di Guerre Stellari.
I manichini sembrano infatti personaggi usciti da un film di fantascienza «archeological», termine che non esiste, ma che rende bene l’idea di questo autore di moda che viaggia in un universo tutto, suo fatto né di passato né di futuro ma forse nemmeno di presente. Infatti la mostra non ha nessun filo logico o cronologico. Esce dalla pancia dello stilista sia metaforicamente che letteralmente. La grande scultura è fatta di materiali diversi e di diversa natura, sintetici ed organici, fiori e capelli, quelli che Owens ha collezionato nel corso degli anni salvandoli al destino crudele della spazzola.
Il risultato è fantastico e orripilante. Potrebbe benissimo essere intitolato «Monumento all’idraulico liquido». Nelle vetrine oggetti e memorabilia di vario tipo dal personale al sessuale. Rick Owens non nasconde di volerci trascinare dentro se stesso, non solo nel suo mondo ma anche nella sua dimensione fisica. Il bello di queste mostre curate dagli stessi stilisti è che non nascondono mai la loro natura, la loro origine, il mondo della moda, ma sottolineano anche come questo mondo si nutra e divori impulsi, intuizioni e ispirazioni che appartengono al mondo dell’arte, del teatro e del cinema. Riassumono con molta intensità lo stato delle cose del mondo in cui viviamo dove tutto s’intreccia e si mescola un po’, come nell’enorme budello nero che ci conduce come una cometa infernale attraverso la mostra.
Il titolo Subhuman Inhuman Superhuman racconta tutto questo. Tradotto liberamente potrebbe essere «Troglodita Inumano Superumano» non lasciando spazio a nessuna forma di normalità o mediocrità. Rick Owens ha utilizzato l’architettura razionalista come un corpo esposto all’irrazionalità della vita, del destino, del desiderio e dell’inevitabile decadenza. Riempiendolo delle sue visioni, incubi e fantasie, lo ha trasformato in una specie di Alien, quella creatura che dava il titolo al film di Ridley Scott del 1979, che cresceva dentro e divorava fuori. La mostra quindi diventa un organismo vivente dentro al quale lo spettatore può scegliere di essere cibo, parassita o vitale flora batterica. Sicuramente tutte e tre le opzioni faranno felice Rick Owens creatura strana ed onnivora.