La Stampa, 19 gennaio 2018
Orhan Pamuk. Lo scrittore a Milano con i suoi oggetti innocenti: Non sta alla politica legittimare la letteratura
Un soffio di Istanbul arriva a Milano. A portarlo è niente meno che Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura 2006. Oggi al Museo Bagatti Valsecchi, apre l’esposizione «Amore, musei, ispirazione. Il Museo dell’Innocenza». Fino al 24 giugno sarà possibile ammirare alcune teche uguali a quelle del Masumiyet Müzesi, Il Museo dell’Innocenza appunto, aperto dallo scrittore a Istanbul nel 2012 e che raccoglie gli oggetti descritti nell’omonimo romanzo, uscito nel 2008. Un vero e proprio racconto della Turchia degli ultimi 50 anni, narrato attraverso l’amore impossibile tra Kemal Basmaci e Fusun, bellissima, ma di una classe sociale inferiore. L’epilogo tragico della relazione porta Kemal a collezionare oggetti appartenuti all’amata. Il protagonista del romanzo muore proprio a Milano, al Gran Hotel et de Milan, a due passi dal Museo Bagatti Valsecchi, uno dei suoi preferiti.
«Sono affezionato a Milano – ci spiega Orhan Pamuk, mentre guarda soddisfatto le vetrine, di cui ha seguito l’allestimento con precisione quasi maniacale -. Ci sono venuto per la prima volta nel 1959 con i miei genitori e da allora sono tornato spesso. Ricordo una bellissima giornata, la Galleria e un negozio di giocattoli stupendo. Oggi di Milano mi piace il suo modo di essere italiana. Quando sono qui vado in giro a casaccio, senza un itinerario preciso». La città ricambia questo affetto. L’Accademia di Brera, che con Regione Lombardia ha contribuito all’organizzazione dell’esposizione, l’anno scorso ha dedicato allo scrittore un convegno culminato con la consegna del diploma honoris causa. Il rapporto con il Bagatti Valsecchi è antico, per Pamuk anche una fonte di ispirazione.
Lo scrittore, del resto, preferisce i musei piccoli contrapposti alle grandi sale espositive, come per esempio alcune strutture in Asia, che troppo spesso per lui sono anche un’occasione di esaltazione di Stati e governi. «Dopo i 35 anni – spiega Pamuk – ho iniziato a viaggiare sempre più spesso in Europa. Ho visitato molti piccoli musei e ho voluto replicare lo stesso modello a Istanbul. Mi piacciono i piccoli musei, è una scelta estetica. Penso che siano più idonei a prendersi cura dell’individuo».
Un museo letterario, un genere, come ha sottolineato Salvatore Settis nel suo intervento, «completamente nuovo, dove il tema della memoria viene declinato non come un peso ma come un’emozione, un serbatoio di energia». Ed è proprio di Kemal, Fusun e della sua Istanbul che Pamuk si è voluto prendere cura quando, nel 1998, ha acquistato a Çukurcuma – un tempo quartiere povero, oggi luogo glamour, centro di gallerie d’arte e antiquari – il palazzo che ospita il Masumiyet Müzesi e dove, nel romanzo, vive la famiglia della protagonista femminile. «Per dare vita al Museo ho speso più o meno i soldi vinti con il Nobel. Ho coltivato questo progetto per 15 anni. Quando ho comprato l’edificio, la zona era molto diversa da oggi, somigliava più alla Istanbul degli Anni 60».
Una Istanbul che sta scomparendo giorno dopo giorno. «Il problema principale è il sovraffollamento. Abbiamo un governo conservatore, ma stanno demolendo quartieri interi, e con loro le memorie che si portano dietro. Lasciano in piedi solo le moschee. Stanno sorgendo nuovi palazzi che rispondono all’esigenza di costruire edifici in una città dove la popolazione sta aumentando».
Da lì a chiedere della Turchia, il passo è breve. La voce di Pamuk, quando si tocca questo tasto, si incrina. Lo scrittore non parla volentieri della situazione nel suo Paese. «Personalmente, non credo che la Turchia sia più conservatrice o islamica. Sta diventando più autoritaria e ormai senza libertà di espressione. Stanno cercando di inventare una democrazia: si vota ancora, ma senza libertà di espressione ci può essere una reale democrazia?».
C’è però una cosa che aggiunge subito: «Da quando ho vinto il Nobel sono diventato famoso, molti pensano che debba rappresentare la Turchia, essere un qualcosa di simile a un diplomatico della cultura. Non sono un diplomatico. Faccio le cose seguendo i miei umori. La legittimazione della letteratura non è la politica. La letteratura trae legittimazione da sé stessa. Per me, a volte, è più importante scrivere una buona frase che dire qualcosa di politico. Per prima cosa sono uno scrittore».
Alla fine sorride. Il sorriso di un narratore ai tempi del presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha trasformato il Paese da promessa sposa dell’Europa a mina impazzita nel Mediterraneo. E che sarebbe rimasto volentieri nel suo mondo, a descrivere quella terra crocevia di culture, carica di contraddizioni, eternamente sospesa fra Oriente e Occidente chiamata Turchia.