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 2018  gennaio 19 Venerdì calendario

La caccia al profumo della vaniglia cambia il volto del Madagascar

«Un profumo di vaniglia come questo non lo avete mai provato». Recita così l’ultima campagna pubblicitaria della Bath & Body Works, azienda americana produttrice di profumi e bagno schiuma, pronta a lanciare l’ultima fragranza intrisa di vaniglia selvatica del Madagascar. Una tipologia particolare della spezia che impiega tre anni prima di poter esser colta e cha ha raggiunto la quotazione di 2200 dollari al chilo, quattro volte superiore alla vaniglia tradizionale. Dal noto profumo J’adore di Christian Dior, alle barrette di cereali della Nestlé, all’ultimo gelato di McDonald’s, la corsa all’ultimo baccello di vaniglia del Madagascar è ufficialmente partita. Nell’ultimo anno e mezzo, anche a causa dei cicloni che hanno colpito l’isola dell’Oceano Indiano e ne hanno ridotto la produzione, i prezzi sono triplicati passando da 200 a 600 dollari al chilo, inferiori solo allo zafferano. Le esportazioni verso l’America sono passate da 232,8 milioni di dollari a 402,4 milioni di dollari (dati del Dipartimento del commercio americano) con una richiesta sei volte superiore rispetto a tre anni fa. Si stima che i prodotti in commercio a base di vaniglia siano oltre 18 mila, ma soprattutto la crescita esponenziale del cibo dietetico ha contribuito a trasformare il Madagascar, da dove proviene l’80% della vaniglia globale, in un’industria da 1,75 miliardi di dollari all’anno.
Un boom che sta costringendo i coltivatori della spezia ad assumere guardie armate. Nel Nord-Est del Paese, dov’è concentrata la maggior parte delle piantagioni all’interno della giungla malgascia, il numero di furti della pianta rampicante da dove si produce la vaniglia è aumentato in modo esponenziale. «Non avevo mai visto così tanti ladri in 30 anni di attività – ha detto il signor Mandondona, uno dei tanti coltivatori della regione della Sava nel Nord-Est dell’isola al «Wall Street Journal» – prima rubavano qualche sacchetto, adesso, invece, sradicano piantagioni intere e sono stato costretto a contrattare guardie armate». La domanda ha oltrepassato le 3 mila tonnellate all’anno, una richiesta superiore alla produzione che sta costringendo i coltivatori ad accelerare i processi di produzione e ridurne quindi la qualità. «Le multinazionali alimentari non tengono conto che la lavorazione della vaniglia in Madagascar è ancora manuale e non riesce a stare dietro alla richiesta industriale» ha detto Jean Cristophe Peyre, direttore generale di Flor Ibis Sarla, un produttore ed esportare della preziosa spezia. Un processo lungo e complesso che può durare fino a quattro anni. La pianta rampicante, importata dal Messico nel 1800 e che rientra nelle famiglie delle orchidee, impiega tre anni per produrre il fiore, che ha un solo giorno a disposizione per essere impollinato manualmente. Solo nove mesi dopo il baccello sarà pronto e serviranno ancora tre/sei mesi per l’essiccazione. In media per realizzare un chilo di vaniglia sono necessarie seicento piante. Una richiesta così fuori controllo che sta portando alcuni dei grandi produttori industriali ad usare prodotti sintetici come il Vanillin. Con l’obiettivo dichiarato di voler «riorganizzare» la filiera, il Fondo Livelihoods, un fondo l’investimento che punta sui piccoli agricoltori ma che è finanziato da giganti dell’agroindustria, ha deciso di investire 2 milioni di dollari nella regione di Sava, quella dove si produce l’85% della vaniglia malgascia. Il progetto, secondo la stampa locale, prevede la formazione di cooperative, l’inserimento di agronomi, per migliorare la produttività e la gestione.
«L’essere umano è esposto fin dalla nascita con il latte materno al sapore della vaniglia – sostiene Pamela Dalton, del Monell Chemical Senses Center di Filadelfia – fin da bambini si crea così una sorta di astinenza che ci porta ad apprezzare e ricercare i prodotti con questa spezia». Un business che sembrerebbe una manna dal cielo per l’isola che rimane uno dei Paesi più poveri al mondo: 158° su 188 nell’Indice delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Umano. E, invece, i coltivatori, sui circa seicento dollari al chilo a cui viene venduta, riescono a fatturare solo un terzo del totale, da dividere poi tra i numerosi lavoranti che manualmente seguono la lavorazione.