il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2018
Il 3% e il minor deficit che riduce il debito. Una formuletta senza basi scientifiche
Ieri il commissario Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha definito “un controsenso assoluto” la proposta di Luigi Di Maio di sforare il vincolo del 3% del deficit in rapporto al Pil (“fare investimenti ad alto deficit per fare in modo che ci sia un gettito per lo Stato con cui pagare il debito”) stabilito nel Trattato di Maastricht che fondò l’attuale Ue: “Sul piano economico questa riflessione non è pertinente: il tetto del 3% ha un senso molto preciso, quello di evitare che il debito non slitti ulteriormente. Ridurre il deficit significa combattere il debito e combattere il debito significa rilanciare la crescita”.
La faccenda non è così semplice come la mette il politico francese, peraltro ministro delle Finanze dal 2012 al 2014 di un Paese che sotto la sua guida ha sforato quel parametro (una soglia – va ricordato – che non ha base scientifica e fu scelta solo perché rispondeva allo stato dell’arte in Francia e Germania all’inizio degli anni 90).
In realtà, a livello macroeconomico non esiste una correlazione così stretta tra livello del disavanzo pubblico, debito e crescita. Anzi, se esiste, è esattamente opposta, specie in tempi di crisi: la spesa dello Stato è – ovviamente – un reddito di chi la percepisce; quel reddito viene speso innescando un effetto positivo nell’economia (maggiore Pil); lo Stato ne incassa una parte via tasse e imposte (per questo non ha senso fare paragoni tra il bilancio dello Stato e quello di una famiglia). È quello che si chiama “moltiplicatore della spesa pubblica”, che è più alto (cioè genera più crescita) nel caso della spesa per investimenti: in tempo di crisi, quando i capitali privati scarseggiano, è l’unico modo sensato di reagire.
Torniamo al 3%. La Spagna è ad oggi l’unico Paese dell’Ue ad avere un rapporto deficit-Pil superiore alla soglia (3,1% nel 2017), che sfora regolarmente dal 2006 (come la Francia, scesa al 2,9% l’anno scorso): negli ultimi tre anni, però, grazie a una crescita robusta, accompagnata anche dalla spesa dello Stato, il suo debito pubblico ha iniziato a diminuire. Per la Francia, invece, questo non è stato vero: pur avendo sforato il 3%, il suo ritmo di crescita non è stato altissimo (d’altra parte il suo Pil non era crollato negli anni precedenti come quello spagnolo e si potrebbe affermare che, tagliando deficit, la Francia sarebbe cresciuta ancor meno).
E qui veniamo al cuore del problema. Il problema sono i rapporti economici nell’Eurozona: l’enorme surplus commerciale “regalato” dall’euro a Germania e Olanda (che viola anch’esso un parametro europeo senza che la Commissione faccia nulla) impone ai Paesi della moneta comune di riallineare il cosiddetto “cambio reale” nell’unico modo possibile, cioè facendo costare meno il lavoro (deflazione interna).
La Spagna – che oggi è una colonia economica tedesca – la sua deflazione l’ha fatta eccome: ha ridotto i salari reali in maniera spaventosa, ha ultra-precarizzato i rapporti contrattuali e nonostante questo ha una disoccupazione che s’aggira attorno al 17%. In premio ha avuto una crescita dell’economia durante la quale crescono pure i poveri: è il nuovo modello europeo.
La Francia, al contrario, ha deflazionato assai meno, il suo Pil non è crollato come quello spagnolo, ma continua ad accumulare pesanti deficit di bilancia dei pagamenti che la rendono debole nei rapporti con l’estero: Emmanuel Macron è stato eletto, in sostanza, proprio col programma di tagliare i salari e non a caso la sua prima “riforma” è stata quella del lavoro.
L’Italia è al momento a metà strada tra Spagna e Francia: non ha avuto la Troika, ma ne ha applicato preventivamente molte richieste. Secondo l’ultimo Documento di economia e finanza del Tesoro, ad esempio, la manovra “Salva Italia” di Mario Monti – un esempio di austerità quasi da manuale – è costata alla nostra economia un calo medio (cioè l’anno) di quasi il 10% degli investimenti e del 3,6% dei consumi tra il 2012 e il 2015. Gli effetti sul Pil sono pari invece al 4,7% medio, cioè circa 75 miliardi l’anno per 4 anni, 300 miliardi in tutto. Il debito pubblico, nello stesso lasso di tempo, è passato dal 120 al 132%. Insomma, la formuletta meno deficit, meno debito, più crescita va bene al massimo per il programma elettorale di “+Europa”.