il Giornale, 18 gennaio 2018
Dal sexgate al neofemminismo. Lewinsky, vent’anni di carriera
Che poi, all’inizio, lei non era nemmeno la protagonista di tutta la faccenda. All’inizio fu Paula Jones a scatenare l’inferno. Lei che aveva fatto causa all’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton perché anni prima, nel 1991 (il giorno era l’8 maggio), avrebbe subito delle molestie sessuali da colui che in quel momento era governatore dell’Arkansas (pronuncia Arcansou, come scoprimmo in quegli anni). Quel caso fu poi derubricato dal tribunale a semplice liaison consensuale, ma nel frattempo era accaduto qualcosa che avrebbe cambiato la storia del morente Novecento. Era accaduto che tale Linda Tripp, dipendente del Pentagono, aveva raccolto le confidenze della stagista Monica Lewinsky, che nel 1995 aveva trascorso un periodo alla Casa Bianca. Quella ragazza con il caschetto nero e gli occhi da ingenuona del cinema le aveva raccontato di una tresca tra lei e nientepopodimenoche il presidente degli States. La Tripp prese a registrare le telefonate tra i due e a raccogliere qualche testimonianza e poi portò tutto alla redazione di Newsweek. Poi, il 7 gennaio 1998, andò da Kenneth Starr, un magistrato indipendente che stava indagando su alcuni casi di molestie sessuali. Starr consigliò alla Tripp di incontrare la Lewinsky con un registratore nascosto e la giovane californiana si presentò all’appuntamento con in mano la copia di un documento fornitogli dalla Casa Bianca che indicava quello che avrebbe potuto, non potuto e dovuto dire all’udienza per il caso Jones a cui erano state convocate le donne che avevano lavorato a con Clinton. Il 17 gennaio del 1998 Drudge Report racconterà tutta la faccenda e il fatto che Newsweek aveva cercato di insabbiare lo scandalo non pubblicando un articolo già pronto.
Era nato il Sexgate, il padre di tutti gli scandali sessuali. Nei mesi successivi non si parlò d’altro che dello «studio orale», il modo in cui la sapida ironia di palazzo aveva ribattezzato l’ufficetto di Clinton dove in più occasioni si erano celebrati incontri ravvicinati del tipo orale che erano la specialità di casa Lewinsky. L’elenco e la descrizione delle prestazioni era più da cinepanettone che da stanza dei bottoni, a meno che con questi ultimi non si intendessero quelli del pantalone di Bill. Che dalla faccenda ebbe la folgorante carriera politica acciaccata ma non distrutta. Subì l’impeachment, secondo presidente della storia americana dopo Andrew Johnson (ma allora eravamo nell’Ottocento), poi se la cavò per il rotto della cuffia ma fu solo grazie all’economia americana che tirava come un pitbull al guinzaglio se restò alla Casa Bianca.
Monica, lei, iniziò una luminosa carriera da... da... Ecco, da? Inizialmente da star della cultura pop-trash degli anni Novanta, che proprio oggi si stanno iniziando a rivalutare (proprio sicuri?). Fece comparsate televisive, partecipò a show, vendette interviste. Poi iniziò a diversificare il business: firmò una linea di borse, fece da testimonial di una dieta imponendosi di perdere 40 libbre (pari a circa 18 chili), lei rotondetta assai, per vincere un montepremi pari a un milione di dollari. Poi, nel 2005, decise di mettere la testa a posto (e nel suo caso il modo di dire fa quasi ridere): si laureò in Psicologia a Londra e per un decennio se ne stette buonina evitando ogni pubblicità. Fin quando Monica, che all’epoca del suo interesse per le ragnatele sotto la scrivania di mister president aveva ventidue anni, non decise pochi mesi fa – allo scoppio del Sexgate hollywoodiano – quando di anni ne aveva ormai quarantaquattro, di aderire via tweet alla campagna #MeToo con ciò riconoscendo di essere stata anch’essa vittima di abusi sessuali. Non dette altri dettagli, ma forse è uno di quei pochi casi in cui non ce n’era proprio bisogno.