la Repubblica, 18 gennaio 2018
Ieri, oggi e domani. Il sacrificio del maiale
Visto dall’alto di questa collina, l’Aspromonte è un mare di boschi e ulivi. Se si fa eccezione per lo spruzzo di casette del borgo di Santa Cristina, comune in provincia di Reggio Calabria, la mano dell’uomo è quasi invisibile, la natura procede selvaggia e inesorabile come da milioni di anni. Ed è antichissimo il motivo per cui domenica scorsa ci si è dati convegno a Villa Rossi, l’edificio settecentesco che occupa la radura in cima al colle: onorare il maiale. L’idea è stata del cuoco Nino Rossi, uno dei motori della nouvelle vague gastronomica calabrese. È lui che ha portato qui le migliori menti di una giovane generazione di cuochi – dalla regione e da tutto il paese – e ha detto loro: «Rilanciamo la tradizione del porco». Non che il maiale abbia problemi di popolarità – gli italiani mangiano in media 17 chili di salumi all’anno pro capite ( il 26,3 per cento è prosciutto cotto e il 22 per cento crudo) e 30 di carni suine in generale – ma qui in Calabria è una faccenda diversa. «Per noi è un rito – dice Rossi —, è una catarsi. Un momento di grande potenza liberatoria, carico di buoni auspici, che allontana lo spettro della miseria. Sarebbe una follia se, in questi tempi di demonizzazione della carne e di ipernormazione, si perdessero delle tradizioni che fanno parte della nostra identità».
Identità è una parola importante, spesso abusata, ma in questo caso non è utilizzata a sproposito: nelle campagne dell’Aspromonte, non c’è famiglia che non onori la bestia. Quella di Martino, per esempio, trentacinque anni, elettricista. Lui e i suoi parenti allevano un paio di suini l’anno e quando arriva il freddo dirigono verso il casotto tra gli ulivi, e «vaiu u macellu», vanno a macellare. Il giorno precedente tengono il maiale a digiuno, «si dice che quella notte lui sogni che l’indomani morirà». Poi, la mattina, lo legano. Un fendente recide la giugulare che sprizza sangue che diventerà sanguinaccio. «Una squisitezza, sembra Nutella» – commenta il macellaio di zona Enzo Ioppolo, 53 anni, parlando dell’intruglio a base di sangue, vino cotto, cacao, cannella... – «è una disgrazia che ne sia proibita la vendita per ragioni sanitarie: grazie al cielo qui si fa ancora in casa». Dopo aver raccolto il sangue del maiale, si stende il corpo su un tavolo, e in tre, con acqua calda, coltelli e limone ne raschiano e puliscono la pelle. Quindi s’appende. Si squarta. Si eviscera. Si comincia a macellare. Il trito finisce in una bacinella con sale, vino e il peperoncino che è genius loci e antibatterico naturale: diventerà salami. Tutto dev’essere fatto a freddo, in fretta, massimo entro sera: le carni suine sono delicate tanto che in Italia fino a trent’anni fa si mangiavano solo conservate. A fine giornata ci saranno insaccati per tutta la famiglia e nulla, proprio nulla, si butterà. «Orecchie e codino sono le mie passioni – dice Diego Rossi, cuoco dell’osteria milanese Trippa, convenuto in Aspromonte —, quand’ero ragazzino e il maiale si mangiava di rado, le trovavo leggendarie. Ora le uso tanto: le orecchie per la consistenza e il divertimento della cartilagine che dà il “crock”; il codino è da sgranocchiare. Beh, poi c’è il meglio del meglio, i ciccioli, il grasso di maiale cotto nel proprio strutto. Numero uno».
Si potrà obiettare: l’uccisione domestica è una tradizione cruenta. Certo. La campagna è bucolica solo nelle penne dei poeti e nelle fantasie degli inurbati. Un rito di morte che però genera festa: «Cu si marita è cuntentu pe nu jornu, cu ammazza u porco è cuntentu pe n’annu» si dice da queste parti. Cambia il dialetto, ma uguale è il significato in Romagna, in Veneto, in Abruzzo, ovunque ci sia campagna. Nelle Marche il rito si chiama “pista”, in Emilia si dice “us smet e bagoin” ( s’ammazza il maiale), ma è lo stesso sacrificio-festa che si celebra a partire da dicembre fino a metà gennaio. D’inverno la campagna s’addormenta e i contadini hanno il tempo di preparare i salami. Da nord a sud, nel nostro paese ci sono alcune razze antiche – le principali sono il Nero di Parma, la Mora Romagnola, la Cinta Senese, la Casertana, la Calabrese, il Nero dei Nebrodi, la Sarda – cui si aggiungono tutti gli incroci. Ma a fare la parte del leone (si fa per dire) è l’“efficiente” maiale bianco, discendente di quelli selezionati tra il Settecento e l’Ottocento in Inghilterra. Quello che ha consentito, anche all’Italia, di transumare da una produzione tradizionale, familiare e stagionale a un sistema industriale da grandi numeri. Il settore infatti è in salute: nel 2016, dicono i dati Assica, il nostro paese ha prodotto 1,174 milioni di tonnellate di salumi per un valore di 7.875 milioni di euro; nel primo semestre 2017 le esportazioni sono state di 85.137 tonnellate (+ 6,3 per cento sul primo semestre 2016) per un fatturato di 718,9 milioni di euro (+ 10,7). Non sembrano dunque aver inciso gli studi sulla correlazione tra il consumo di insaccati e alcune patologie, del resto la produzione italiana più di altre è attenta a non utilizzare nitrati e nitriti ( il prosciutto crudo di Parma Dop e il prosciutto crudo San Daniele Dop, per legge, non posso avere additivi). Tuttavia non c’è prodotto realizzato in serie che possa restituire la magia e il sapore di una giornata di gennaio nei boschi. In un casolare immerso tra fichi d’India e olivi a legare salami che la bruma e il tempo renderanno unici.