la Repubblica, 18 gennaio 2018
Brevi storie di donne sprecate
Racconti ritrovati (La nave di Teseo) mette insieme 46 racconti di Anna Banti, appunto ritrovati lì dove lei, sbadata perché prolifica, distratta perché nobile, li ha dimenticati, nel corso degli anni, dal 1930, quando il suo primo racconto comparve sulle pagine del periodico La Tribuna, al 1985, anno della sua morte a Ronchi di Massa.
Essi sono raccolti da Fausta Garavini, che ne firma la curatela con rigore filologico ma anche con una lacrima nell’angolo degli occhi: la sua prefazione è un racconto nel racconto, è come si leggono le donne tra di loro. Apre e spiega, ma anche rappresenta, questa curatela, un modo affettuoso di custodire un’anima. Pare dire la Garavini in queste pagine: guardate che vi spiego da dove arrivano i racconti così che voi possiate capirli meglio e non profanarli. Prolifica Anna Banti, si diceva, ma soprattutto così impegnata a vivere e così consapevole della vita da non potersi certo permettere di dare importanza ai suoi scritti. Basta leggerne uno qualunque: Anna Banti delle donne, e quindi degli uomini, sa tutto. I suoi personaggi partono da se stessa, lei si usa, piccola Alice, come specchio per guardare la società: quella che le piace e quella che le fa ribrezzo.
Proietta il silenzio delle campagne nella sua vocazione monacale mai esperita, la lussuria dei lupanari diventa tutto il non detto, tutto il non vissuto, l’esperienza mancata.
Così gli opposti creano il senso e il senso dello scrivere racconti così copiosamente e poi dimenticarli nei cassetti è: la vita è troppo frammentata perché la si possa dire una volta sola e per tutte, l’esperienza della vita è la somma dei suoi frammenti. Ecco che quindi dalle pagine dei giornali, dalle prime edizioni di racconti che avrebbe ripreso in seguito, e dai luoghi in cui non ricordava più di aver messo quel tale manoscritto, fioriscono quarantasei nuovi quadri. Sono bambine che crescono e che devono compiere un rito iniziatico, e il passaggio è l’incontro con la morte, quella di una nonna: fu il suo primo racconto questo, inviato a un concorso che non vinse, e in cui, per non arrischiare il suo nome, Lucia Lopresti, usava per la prima volta lo pseudonimo Anna Banti («Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita», confesserà a Sandra Petrignani). Sono donne pigre che tramano su una spiaggia, in codici segreti agli occhi di chi le osserva, contro o per uomini che credono invece di essere padroni della loro vita. Sono donne annoiate della borghesia romana, o donne ciarliere a passeggio per via Condotti. Sono paesaggi di campagna, di periferia, ma periferie del tempo, come la fine dell’estate, il settembre dopo la villeggiatura, quando il mare si vela d’acqua e il sole non scotta più. Tutto è perfettamente chiaro, cristallino alla lettura e tutto pervaso però di un senso umbratile, che non consente di mettere per sempre a fuoco gli elementi: si muovono in controluce le “personagge” di Banti, così che sia possibile distinguerne le silhouette e mai i volti, perché forse sono età diverse e possibilità diverse del modo in cui si manifestano le donne alle scrittrici donne. È questo effetto a creare un riserbo nobile, un doppio livello di prossimità: ci si è vicini, alla protagonista, perché si conosce come la pensa fin nel midollo che le percorre la schiena, eppure ci si è lontani lontanissimi, perché Banti la fa muovere dietro un velatino che ottunde il boccascena, così da rivelarla solo a tratti. Ci siamo vicini, perché sappiamo cosa vuole dire, eppure ci siamo lontani perché la lingua così tagliata, la penna così sicura ci distanziano, ci dicono di una generazione di scrittrici che ha trovato – solo le donne ci riuscirono, nella seconda metà del Novecento – l’impossibile equilibrio tra il neorealismo e il surreale. I personaggi di Banti sono quasi tutte donne, quasi tutte – dice Garavini, formidabile – “sprecate”.
Che è il sentimento dominante della condizione femminile nel mondo. Intravedere che si potrebbe oltre e non poterlo raggiungere. Ma poi ci sono i luoghi dell’infanzia, della vita: Firenze, dove è nata, Roma dove conosce e sposa Longhi storico dell’arte, dove fonderà assieme al marito la rivista Paragone che diresse in alcune sue parti e, dopo la morte del marito, in toto. E c’è, soprattutto, nei Racconti ritrovati, la memoria della guerra. Il ricordo della fame, dell’abbrutimento, e delle figure che spiccano in mezzo alle altre perché non hanno paura. Qui il confronto con le lettere si fa serrato, e il filo della memoria che costruisce, che ripesca per ampliare diventa ordito con quello dell’autobiografia, innestando la propria storia sulla Storia. Lavorerà sempre così Banti, con la fantasia che comanda, distorce e cristallizza: è lo stesso passo nobile di Althenopis di Fabrizia Ramondino, è l’isola che si fa ragazzo di Elsa Morante, ed è L’Iguana di Anna Maria Ortese, ma sono anche i passi vividi de La villeggiante di Lalla Romano, e il salotto di Maria Bellonci.
Per quest’ultima, per la casa dei Parioli in cui Annamaria Rimoaldi la stava detronizzando, ci sono pagine di tenera gelosia. E una punta di disprezzo per gli Amici della Domenica (i votanti dello Strega), che ricorda Il silenzio della ragione di Ortese: e che rappresenta bene il conflitto dell’intellettuale, lì dove sente di aver bisogno di un pubblico d’élite – l’unico da cui si aspetta un attendibile spirito critico, l’unico di cui in qualche modo si fida davvero – e assieme lo rifugge, inquietandosi per quel punto di cerniera che esso ingaggia con la mondanità.