La Stampa, 18 gennaio 2018
Quel rito antico che dal Gianicolo permette di parlare con i detenuti
«Amo’, me manchi!!! Nun ja faccio più senza de te!!»» Jessica è seduta su un muretto. Gesticola, urla, si sporge anche se oltre si apre un ripido strapiombo. Altrove la scambierebbero per un’aspirante suicida ma siamo a Roma, sul Gianicolo: tutti sanno perché è lì, e la lasciano fare. Le lanciano uno sguardo rapido le coppie di fidanzati mentre le passano accanto tenendosi per mano e godendosi la dolcezza di un clima quasi primaverile. A stento si accorgono di lei le folle di bambini mentre corrono schiamazzando verso il teatrino di marionette.
Nemmeno Jessica li degna di uno sguardo: ha occhi e voce soltanto per un punto fisso davanti a sé. Oltre gli olivi, i cespugli e il dirupo, confuso tra i tetti di Trastevere, c’è il suo uomo. Nessuno lo vede, lei sì. «Amo’, me senti? Come stai?» urla ancora mentre con il braccio saluta quel punto lontano. La risposta arriva dopo qualche secondo, portata dal vento, debole ma netta: «Amo’, vojo uscì!».
Visto dal Gianicolo, Regina Coeli non sembra un carcere È un palazzo fra tanti. Nessun filo spinato, nessuna recinzione, solo un edificio a portata di voce. Chi ha bisogno di comunicare con i detenuti sale sul colle, si sporge dalla terrazza del Faro e urla. Urla di amore, di disperazione, di tristezza. Piange, ride, parla della famiglia, della vita che passa. Senza vergogna, sotto gli sguardi di chiunque passi.
Qualcuno l’ha ribattezzato Radiocarcere ma c’è qualcosa di sacro in questo luogo, è la terrazza delle voci liberate, è il Muro del Pianto delle donne di Roma. Un vecchio proverbio avverte: chi non finisce almeno una volta a Regina «nun è romano né trasteverino». Ma, se è così, allora non sono romane né trasteverine nemmeno le donne che non sono mai andate sulla Terrazza del Gianicolo a urlare la loro sofferenza ai mariti o ai fidanzati dietro le sbarre. Accadeva a fine Ottocento, era una consuetudine consolidata durante il regime fascista che aveva capito di dover chiudere un occhio a patto che le comunicazioni fossero innocenti. E lo è ancora nel 2018 quando, in un mondo dominato da cellulari e comunicazioni intercontinentali sempre più veloci, una mesta folla sa di avere a disposizione soltanto la propria voce.
Il punto migliore è proprio la terrazza del Faro costruito nel 1911 per i cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Da qui la voce si propaga rapida lungo i percorsi invisibili delle correnti fino a valle, fino alle celle dei detenuti. I più fortunati riescono a rispondere, qualcuno anche a farsi vedere. C’è chi si denuda perché i percorsi mentali di chi perde ogni libertà possono diventare molto contorti. E c’è chi – come Jessica e il marito – ha trovato il modo di sentirsi e vedersi. Hanno un trucco. Quando Jessica arriva, chiama il marito e agita un manicotto rosa nel cielo. È il segno di riconoscimento convenuto, altrimenti l’uomo non potrebbe individuare al primo sguardo la piccola figura della donna sul colle.
«A casa tutto bene. Mamma zoppica ancora ma sta migliorando», urla Jessica sventolando il manicotto. «Me manchi tanto amo’!!!!», aggiunge sbracciandosi ancora di più. La risposta aleggia nel vento dopo qualche secondo di attesa: «Anche tu....». Jessica sorride, felice.
Sorride anche Silvana Sergi direttrice del carcere di Regina Coeli. «Sento i richiami, li ho sempre considerati un rito antico e positivo. Nessuno dei parenti sale sul Gianicolo per dire qualcosa di proibito o pericoloso. Sono parole sempre molto carine, anche utili per rendere meno difficile la permanenza in carcere. Più che preoccuparmi, mi incuriosisce la tecnica che usano, la capacità che hanno di farsi capire. A volte sento queste donne che chiamano il loro uomo per nome. Spesso ce ne sono tanti in carcere con quel nome e mi chiedo: ma risponderà la persona giusta o un omonimo? E risponde sempre la persona giusta».
Quanti Angelo ci saranno a Regina Coeli? Di sicuro molti più di uno. Stavolta però è più facile capire a chi si rivolge la donna che in una ventosa sera di quest’inverno si è affacciata dalla terrazza del Faro. «Angelo, vita mia, auguri!!! È il secondo compleanno senza di te ma io t’aspetto tutta la vita!». E quanti sono i Luciano? Vai a sapere, però soltanto a uno può essere diretto il messaggio di un uomo piuttosto corpulento che due settimane fa lo rassicurava: «Lucià, so’ corso qui dall’ospedale! È nato! È un maschio, Melissa sta bene, è tutto a posto!».
La verità è che molti hanno dei sistemi per concordare orari e giorni. A volte sono gli avvocati a definire gli appuntamenti. In tutti gli altri casi si spera nella fortuna. Si sa che nell’ora d’aria comunicare è quasi impossibile perché i rumori nel cortile nasconderebbero ogni voce. E si sa che nelle altre ore il silenzio è rotto soltanto dai gabbiani e dal frastuono lontano del traffico del Lungotevere. «In questo silenzio le voci dei parenti sono importanti – aggiunge Silvana Sergi -. Permettono ai detenuti di non perdere la concezione del tempo. In altre carceri non è possibile. A Regina Coeli, invece, i detenuti restano calati nei ritmi della vita, mantengono un equilibrio». E così anche stasera qualcuno salirà fino alla Terrazza del Faro, e dentro Regina Coeli qualcuno sorriderà.