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 2018  gennaio 18 Giovedì calendario

Regeni fa paura a Cambridge

Ex cathedra e con una nota ufficiale dalla sorprendente violenza verbale, pari solo alla sua allusività e genericità, il vice- chancellor dell’università di Cambridge (figura assimilabile a quella del nostro rettore), Stephen J. Toope, accusa la Procura di Roma e la stampa italiana (entrambe mai citate) della più miserabile delle operazioni nella vicenda Regeni. Di aver cioè orchestrato «una vergognosa campagna di denigrazione, alimentata da convenienze politiche» nei confronti di Maha Abdelrahman, «onorata ed eminente studiosa», tutor di Giulio, al solo scopo di distrarre l’opinione pubblica da «un’apparente mancanza di progressi investigativi». Operazione questa resa ancora più «inquietante» perché la docente egiziana è «vittima di quelli che appaiono sforzi concertati per implicarla direttamente» nel caso. Con «pubbliche congetture» «imprecise, dannose e potenzialmente pericolose», basate su una fondamentale «mancanza di comprensione della natura della ricerca accademica» e dei suoi «metodi». Con il modo «distorto» con cui, «violando platealmente la confidenzialità del procedimento giudiziario», è stato ricostruito l’interrogatorio della docente.
Infine, l’argomento di chiusura, il kick- off. Che, a ben vedere, offre un qualche indizio sulla mossa. E che spiega il perché la nota sia stata inviata per e- mail anche a tutti gli ex studenti dell’Ateneo in giro per il mondo perché si attivino, controbilanciando la sgangherata stampa italiana e, viene da dire, quei furbacchioni dei magistrati della Procura di Roma. Cambridge – si legge – «continuerà ad assistere le autorità nella ricerca della verità, ma anche a difendere il “diritto alla ricerca”».
Ecco il punto, dunque. Il «diritto alla ricerca». Diciamo la verità. Della morte di Giulio Regeni, delle circostanze in cui è maturata, delle premesse che hanno concorso, va da sé senza dolo, a ingrassare la paranoia del regime egiziano, non frega in realtà un bel niente. Regeni è morto, pace all’anima sua (a Cambridge lo ricorda solo una piccola foto). Evidentemente, danno collaterale (accettabile) di un lavoro e di un’industria – quella della formazione permanente di eccellenza – che muove centinaia di milioni di euro e di dollari ogni anno. Nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Europa. Alimentato dalle tasse di chi paga ( gli studenti, le loro famiglie), da qualche raro mecenate, e, in modo decisivo, dal cosiddetto “soft money”, i contributi privati di fondazioni, fondi sovrani, enti, uomini d’affari. Senza i quali i dipartimenti non funzionano. I professori non possono essere messi a contratto. La ricerca non marcia. E che, proprio per questo, «oggettivamente», finiscono per condizionare quella ricerca che si vuole per definizione «libera», ma che libera non è. Perché finanziariamente non autosufficiente. Tanto per dire: è legittimo domandare alla Abdelrahman e a Cambridge per quale motivo, nella griglia di domande che Giulio sottoponeva ai sindacalisti nella sua ricerca, ritornassero ossessivamente quesiti che avevano a che fare con la polizia e la repressione degli apparati egiziani? È un modo per «coinvolgerla» nell’omicidio? È stato un attentato alla sua libertà di insegnamento attendersi che facesse ciò che fecero spontaneamente il giorno dei funerali gli ex compagni e amici di Giulio: consegnare telefoni e pc? E ancora: è legittimo chiedere a Cambridge chi ha finanziato le ricerche in Egitto? O interrogarsi sul confine sottilissimo che, in alcune aree del mondo, rischia di far confondere la ricerca con l’attivismo e dunque indebolirne l’intangibilità? Giulio ha perso la vita per fare ricerca. Si fidava della sua professoressa che oggi non ricorda neppure di aver ricevuto da lui un libro in regalo. Cos’è più inquietante? Chi si interroga sul perché di tanti non ricordo? O chi, cinicamente, è così spregiudicato da scomodare il diritto alla ricerca solo perché non ha la forza di discuterne le implicazioni con il coraggio della “verità”, ma solo con la supponente arroganza delle consorterie?