la Repubblica, 18 gennaio 2018
«Rapine e assalti, così ho bruciato i miei anni migliori nella baby gang». Intervista ad un giovane boss
NAPOLI «Io li puntavo per strada. Senza conoscerli neanche. Io tenevo uno sguardo assurdo, malato: cioè ti sapevo dire, guardando le facce e le movenze, chi teneva più soldi.
Se era meglio rapinare quelli da un lato della strada o quegli altri che passavano dal marciapiedi di fronte. Mi avvicinavo. Mettevo paura. Però lo so che faceva schifo questa cosa. Adesso lo so che mi sono bruciato da solo gli anni migliori».
Confessioni di un ex capo gang.
Dai suoi arresti domiciliari.
Riflessioni da una casa modesta, nel cuore di Napoli, a testa bassa, senza ipocrisie. Parla Lino, diciannove anni, del rione Sanità, centro antico. Un giovane che per anni ha fumato “amnesia”, il fumo famoso perché «spegne il cervello». Condannato per rapina, mentre altri processi per altri episodi analoghi sono in corso.
Eppure Lino non è un rampollo di boss. «Sono figlio di commercianti, non mi mancava niente, almeno materialmente».
Lino, a quanti anni ha cominciato?
«A quattordici. All’inizio per fare qualcosa, per riempire il tempo.
Appena ho cominciato a uscire da solo, di pomeriggio, abbiamo iniziato a fare guai, tarantelle...».
Riempire il tempo? Non andava a scuola?
«Fino alla terza media. Ma sono stato bocciato due volte».
È cominciata già con le rapine?
«No. All’inizio davamo fastidio e basta...».
Cosa significa?
«Facevamo casino. Entravamo in un negozio, facevamo sparire una o due cose. Fuggivamo, ci inseguivano. Non ci facevano niente perché erano bravate».
Era con uno più grande?
«Eravamo tutti della stessa etaà, mese più, mese meno. Tra i 14 e i 15 anni».
Ma anche tra coetanei c’è qualcuno che può trascinare.
«Se devo essere onesto, e ormai parlo di me senza bugie, ero io il più forte, trascinavo. Anche se ero un tappo e poi piano piano ho superato il metro e ottanta».
Quando ha capito che stavate superando il segno?
«Quando stai in mezzo alla strada, forse non lo capisci mai. Certo mi ricordo una cosa particolare.
Eravamo ancora così piccoli: ci buttammo in una libreria di Port’Alba, facemmo danni, scassammo delle cose anche senza volere, mettemmo disordine, facemmo incazzare i proprietari, poi però ce ne andammo ridendo. E il giorno dopo uno degli amici ci disse che eravamo andati sul giornale».
E cosa pensaste?
«Che non ci facevano niente».
Poi come è passato alla rapine?
«Io cominciavo a crescere. A capire che si potevano fare soldi con niente. Io intuivo da come camminavano, da quello che indossavano, se da quei bersagli ci potevo tirare fuori venti euro o cento euro. E non mi sbagliavo mai. Io ero uno con una testa veloce assai. Uno che immaginava, pensava. Ma alla fine, facevo solo sogni cattivi».
Quanto guadagnava a fare il rapinatore?
«Molto. Molti soldi. Anche mille euro al giorno».
Come li spendeva?
«Li ho bruciati come un coglione».
Perché? Fumava, si drogava?
«Sì. Soprattutto per colpa di quella roba lì. E poi vestiti, consumi, piccoli lussi di tutti i giorni».
Fumava amnesia, come tanti ragazzini delle gang?
«Sì. Fumavo amnesia».
Lo sapeva che è la più dannosa cannabis, fatta apposta per creare dipendenza e danni?
«Sì. Veramente non lo capivo.
Adesso lo so, non la fumo più»-
Per le rapine usava armi, coltelli?
«No. E non picchiavo o pestavo. Io non ho mandato all’ospedale nessuno».
Ma l’accusa di rapina implica un atto di intimidazione.
«Sì, ma io non avevo bisogno di mostrare nessuna pistola. Potevo anche fare finta, e loro ci credevano. Io da solo, contro quattro ragazzi magari di buona famiglia, riuscivo a farmi il bottino. Me li guardavo da lontano, mi facevo sotto, li costringevo, anche se ero solo».
E come?
«Il mio aspetto. Quando stai in mezzo alla via tutto il giorno, ogni giorno, hai la faccia di uno di strada. Ti porti l’aggressività. Le parole tremende. Agli altri fai paura. E io la usavo».
Uno così viene adocchiato dalla camorra, dai clan.
«Eh, lo so».
Ha subitoil “fascino” di quella vita, dei boss?
«Sì. Posso dire che l’ho subito. Li guardavo, sognavo, vedevo la facilità del denaro, il lusso, le cose che avevano. E quel mondo mi cercava perché io avevo una testa tremenda: se volevo una cosa cercavo di ottenerla. Vuole sapere perché non ci sono cascato? Perché vedevo che morivano uccisi, o stavano sempre in carcere.
Facevano una vita di merda alla fine. È stato un freno che mi ha salvato, insieme al fatto di avere genitori onesti, io non respiravo il crimine nella mia famiglia».
La responsabilità resta la sua.
Ma cosa pensa che le mancasse?
Perché lo faceva?
«Mi sentivo poco considerato, un dimenticato. Ma siamo tre fratelli, ero il più piccolo e i miei genitori già facevano sacrifici per tutti. Io non posso dire niente agli altri».
Che cosa vede davanti a lei?
«Devo pagare il mio conto: un altro anno di arresti, per questa condanna. Poi dovrò affrontare altri processi per altre rapine».
E dopo?
«Cercarmi un lavoro. Ora ho la volontà, ho la forza e la testa per fare qualsiasi lavoro. Non c’è altra strada. Solo, non vorrei essere sfruttato. Vedo tanti sfruttati».
Cosa direbbe ai ragazzini delle gang di oggi?
«Che stanno facendo una cazzata enorme. Prima o poi si paga tutto. E si stanno bruciando anni bellissimi, i più teneri».