Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 18 Giovedì calendario

Il 60% dei pazienti va dai privati. La corsa per accelerare cure e interventi e battere le strutture pubbliche

Non siamo alla mazzetta da duemila euro richiesta a Padova per anticipare i tempi di un’operazione, ma poco ci manca. Il dato che racconta la situazione è uno: più di un italiano su due, per l’esattezza il 59,2 per cento dei pazienti, preferisce pagare la visita a un medico specialista (ospedaliero o privato) per accorciare poi i tempi di ricoveri, analisi e accertamenti diagnostici.
Che ci sia qualcosa di opaco nel rapporto tra visite a pagamento e gestione delle liste d’attesa lo indica il Rapporto annuale sugli ospedali curato da Ermeneia per conto dell’Aiop, l’associazione delle cliniche private. Solo nell’ottobre scorso l’Istat ha certificato che il 9,7 per cento delle famiglie, ossia due milioni e 700 mila assistiti, richiede una visita a pagamento prima di affrontare terapie o operazioni chirurgiche. Un modo per aggirare le liste d’attesa, perché il medico che fa la visita a pagamento è poi in grado di agevolare gli interventi successivi. Altrimenti i tempi sono lunghi, specie nei casi di risonanze, tac e mammografie per le quali si supera anche un anno. Del resto lo stesso «mister anticorruzione», il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, pur sostenendo ieri che «quella delle mazzette non è la prassi», ha additato la scarsa trasparenza nella gestione delle liste d’attesa come una delle principali fonti di corruzione in sanità. Che pagare in sanità non sia spesso una libera scelta lo dimostra un altro dato del rapporto Aiop: la prima causa, indicata dal 46,5 per cento degli assistiti, dei ben 40 miliardi di spesa sanitaria privata è da far risalire proprio alle attese troppo lunghe.

I manager di asl e ospedali interpellati ammettono che a volte nei reparti i primari conservano qualche letto libero per i propri pazienti privati. Un po’ come fanno i ristoratori con i tavoli riservati per i loro clienti. Solo che qui parliamo di diritto alla salute, non di primo, secondo e coperto. I diretti interessati puntano l’indice contro i tagli che hanno dilatato i tempi di attesa, ma ammettono che qualcosa non va. «L’attività privata non è tutto un malaffare e aggirare le liste d’attesa è un reato, ma capita che un medico dia una mano a un proprio paziente privato trovando una motivazione clinica per accelerare i tempi», afferma Costantino Troise, segretario del principale sindacato dei camici bianchi ospedalieri, l’Anaao. «Ma è chiaro che la gente si rivolga al privato se il pubblico arretra, perdendo in tre anni 10 mila medici e 70 mila posti letto nell’ultimo decennio». Per arginare il fenomeno della visita privata «accorcia tempi» qualche Regione in realtà s’è mossa. L’Emilia Romagna non autorizza l’attività a pagamento dei medici ospedalieri quando in reparto non si rispettano i tempi massimi di attesa, che sono di 72 ore per le urgenze, 10 giorni per quelle un po’ meno gravi e rispettivamente di 30 e 60 giorni nel caso delle visite e accertamenti differibili. Altrettanto ha annunciato di voler fare nel Lazio Nicola Zingaretti. Una strada aperta dall’ex governatore della Toscana, Enrico Rossi, che con il cambio della guardia in Regione si è interrotta lì.
Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale dei diritti del malato, indica come arma per arginare il fenomeno la gestione trasparente delle liste d’attesa. «Prima di tutto bisogna porre fine al fenomeno illegale delle liste chiuse che non fanno accettare prenotazioni e che possono celare qualsiasi loro aggiramento per interessi privati. Poi il sistema deve essere centralizzato a livello regionale». Un’indagine del Tribunale del malato ha poi dimostrato che per gli interventi oncologici non è così nel 13% delle strutture del Nord, ma quasi nella metà di quelle del Centro e nel 55 in quelle del Sud. Percentuali tra le quali è più facile far passare la spintarella.