la Repubblica, 18 gennaio 2018
Le armi spuntate della battaglia alle morti sul lavoro
ROMA Gli ispettori sono pochi, anche se il loro numero esatto resta un’incognita per gli stessi addetti ai lavori. Ma il vero problema è che nessuno li coordina a livello nazionale. Il risultato è una assurda sovrapposizione di competenze, la peggiore risposta che si possa dare ai quasi tre morti al giorno sul lavoro, un record tutto italiano. Sì, ogni giorno tre lavoratori escono di casa per lavorare e non tornano più. Una tragica media che invece di scendere, da qualche tempo è tornata a salire in tutto il Paese.
Ieri l’altro, poi, ai tre operai di Milano se ne è aggiunto un quarto, vicino Torino, schiacciato da un muro durante una ristrutturazione.
La ripresa degli infortuni mortali avrebbe dovuto affrettare nel nostro Paese la nascita di un unico corpo di ispettori, coordinati da un solo organismo statale. Così come hanno fatto gli inglesi: già molti anni fa, di fronte a una preoccupante ondata di infortuni, hanno messo in piedi un’agenzia, chiamata Health and Safety Executive, con ispettori molto qualificati che non si occupano solo di reprimere e sanzionare, ma soprattutto di spingere le imprese al rispetto delle norme di sicurezza, alla percezione del rischio, in una parola all’autocontrollo.
Ma l’esempio inglese non ha fatto breccia nell’anima burocratica e corporativa del nostro Paese.
Da noi almeno quattro organismi sono tenuti a intervenire per controllare i luoghi di lavoro. La titolarità principale della vigilanza sulla sicurezza spetta alle Asl: dunque è di competenza regionale, con circa 160 mila ispezioni l’anno su quasi due milioni di imprese. Ma dei circa 5 mila operatori addetti ai servizi di prevenzione, sembra che solo 2.800 abbiano la qualifica di polizia giudiziaria, con poteri di indagini in loco e di sanzione.
Poi c’è il nuovo Ispettorato nazionale del lavoro, dove sono confluiti gli ispettori di Inps, Inail e del ministero del Lavoro, non sempre collaboranti tra loro e retribuiti in misura diversa. Ma l’Ispettorato si occupa solo marginalmente di sicurezza (non più di 15 mila interventi l’anno), mentre il grosso dei controlli (140 mila) riguarda la regolarità dei contratti di lavoro e il rispetto degli obblighi contributivi. Ecco perché, dei quasi 5 mila dipendenti dell’Ispettorato, solo 300 hanno capacità tecniche in tema di sicurezza. E a differenza delle Asl, che possono intervenire ovunque, quei 300 ispettori si occupano solo di cantieri edili, di cassoni ad aria compressa e di altre lavorazioni ad altissimoo rischio.
Infine, interviene un nucleo di circa 400 carabinieri, al quale ovviamente va aggiunto l’apporto dei Vigili del fuoco per il rispetto delle norme anti-incendio. A conti fatti, ma nessuno ne certifica l’ufficialità, a vigilare su sicurezza e salute dovrebbero essere quindi non più di 4 mila ispettori con poteri di polizia giudiziaria. Pochi, ma soprattutto scoordinati.
«Se fosse passata la riforma costituzionale – spiega Giuseppe Lucibello, direttore generale dell’Inail – la competenza esclusiva sulla sicurezza sarebbe passata in capo allo Stato. Invece è rimasta in condominio tra Stato e Regioni, le quali si sono tenuti stretti i loro poteri. Il risultato è che manca un organismo nazionale in grado di dettare la strategia degli interventi. In teoria, può capitare che la stessa azienda venga visitata dagli ispettori di una Asl e da quelli dell’Ispettorato, senza che gli uni sappiano degli altri».
La programmazione, dunque, è affidata per lo più alle Regioni: in quelle efficienti funziona, nelle altre manca del tutto.
«Nella nostra – dice Renzo Berti – direttore del Dipartimento prevenzione della Asl Toscana Centro – riusciamo a coordinarci con gli ispettori del Lavoro con buoni risultati. Ma la soluzione non sta solo nei controlli (che saranno sempre numericamente insufficienti), sta soprattutto nella capacità di convincere i datori di lavoro ad assumersi le loro responsabilità.
Noi ci siamo riusciti con oltre 8.000 imprese cinesi. L’84% si è messo in regola pagando la multa e estinguendo così il reato (di violazione delle norme), come prevede la legge del 2008».
Educare, dunque, oltre che sanzionare. «È proprio così – spiega Carmelo Catanoso, consulente di importanti aziende in tema di sicurezza – Bisogna puntare all’autocontrollo delle imprese.
Per esempio, occorre spiegare loro che di fronte ai cosiddetti spazi confinati, come sembra fosse quello in cui sono morti i tre operai a Milano, ossia con difficoltà di entrata e uscita, bisogna avere ben chiare fin dall’inizio le tre possibili cause di morte: mancanza di ossigeno a causa di altri gas, sostanze tossiche o sostanze infiammabili. Al di là dei comportamenti consapevolmente irresponsabili, è proprio questa percezione del rischio che previene gli infortuni. Ecco perché è fondamentale la formazione, non quella astratta di oggi, ma un’educazione vera, fatta direttamente nei cantieri e nelle fabbriche».
Tutto questo, però, non può prescindere da un’attività di coordinamento e di indirizzo che oggi invece manca del tutto al livello nazionale. Impossibile stabilire linee guida chiare e semplici sulle ispezioni e sulla formazione (oggi se ne contano addirittura ottantasei) se nessuno pensa di porre fine alla attuale frammentazione di competenze.