la Repubblica, 18 gennaio 2018
Caldo, sabbia e terroristi in Niger, missione ad alto rischio
Roma «Nel Sahara siete i benvenuti, ma ricordatevi: noi lì facciamo la guerra…». Nei colloqui con il governo Gentiloni i francesi non hanno usato mezzi termini. E adesso che la missione italiana in Niger ha ottenuto il voto della Camera è bene non dimenticare questo avvertimento. La parola guerra non fa paura ai nostri militari: è dallo sbarco a Mogadiscio del 1993 che vanno nei posti più pericolosi del pianeta. In un quarto di secolo si sono guadagnati sul campo il rispetto di alleati e avversari. Ma negli atti ufficiali tutte le operazioni continuano a restare sempre avvolte nell’ambiguità.
Sia ben chiaro: l’Italia non ha disegni bellici né coloniali, che d’altronde non si potrebbero realizzare con un contingente di 470 fanti in un Paese di oltre un milione di chilometri quadrati. E non c’è neppure l’intenzione di accodarci a Parigi: la nostra missione sarà autonoma. Tutti i ministri hanno però sottolineato come in Niger ci occuperemo solo di formare le forze locali, mentre nella relazione al Parlamento si cita anche un altro compito: «Concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio». Ossia agire in armi per fermare trafficanti e terroristi. Negli scorsi anni i francesi si sono concentrati solo sulla seconda minaccia, che è sempre più forte: l’offensiva jihadista sta aumentando nelle regioni a cavallo del confine tra Mali e Algeria, con altri fuochi in prossimità della Nigeria infestata da Boko Haram. Noi però andremo altrove. Alle porte della capitale Niamey, per fare scuola alle reclute nigerine. E a Madama, l’ultimo fortino della Legione Straniera nel deserto prima di arrivare in Libia, crocevia di ogni traffico e della strada percorsa da mezzo milione di migranti. Anche i terroristi passano da quella rotta, cercando di evitare i controlli: gli serve per trasferire uomini e armi in Libia, sfruttando depositi di benzina nascosti tra le dune e rifugi nelle caverne a ridosso dell’Algeria. I francesi li hanno presi di mira con pochi raid di parà, lanciati di notte contro questi presidi. I piani della spedizione italiana non sono stati dettagliati, ma è difficile che i nostri incursori rinuncino a questa “attività di sorveglianza del territorio”. La stessa che la Task Force 45 tricolore ha condotto nel segreto totale in Afghanistan per sei anni, catturando o uccidendo leader e artificieri dei Taliban in azioni ad alto rischio.
L’incognita maggiore sono le condizioni climatiche, veramente estreme: ad aprile si superano sempre i 40 gradi. Il caldo infernale non spaventa i soldati italiani. A Nassiriya si andava in pattuglia per otto ore con il termometro a 50 gradi: uomini e donne partivano chiusi in blindati senza climatizzazione, con addosso giubbotti antiproiettile pesanti 8 chili e un fucile da 4 chili. Bisognava bere 7 litri di acqua al giorno per evitare la disidratazione. Il record risale però al Mozambico: nel 1993 gli alpini, piemontesi e aostani di leva, rimasero in servizio per un mese a 60 gradi. Li guidava Claudio Graziano, oggi comandante in capo delle Forze armate che ha insistito per migliorare gli equipaggiamenti: peso dimezzato, aria condizionata sui veicoli, gli strumenti che permettono di agire nell’afa di Mosul. Ma nel deserto rosso del Niger è più pericolosa la sabbia, che limita le prestazioni dei motori e soprattutto degli elicotteri. Ostacoli che vengono studiati da tempo e saranno risolti con hangar gonfiabili per la manutenzione, già sperimentati in Iraq.
Sul terreno, il contingente italiano dovrà coordinarsi con i francesi, con gli americani – che lì hanno appena ottenuto il permesso di usare droni dotati di missili – e nel futuro con altre truppe europee. La crescente presenza straniera comincia ad essere accolta con diffidenza, un malcontento cavalcato dall’opposizione, anche quella di matrice islamica. A fine ottobre la capitale Niamey è stata scossa dalle proteste contro le misure economiche del governo, accusato di pensare solo ai ricchi, senza che gli aiuti internazionali raggiungano la popolazione.
La vera sfida è questa. Non solo limitare le carovane di migranti, che nell’ultimo anno si sono già drasticamente ridotte, e combattere il terrorismo: l’obiettivo principale presentato dal premier è quello di creare le condizioni per lo sviluppo della regione, con un grande piano di investimenti, distribuiti a pioggia e non incamerati dalla cleptocrazia locale. Un disegno molto più ambizioso, complesso e costoso dell’invio di un battaglione. Si tratta di un impegno che si può realizzare soltanto con un accordo europeo: quello che è stato raggiunto da Gentiloni con Macron e Merkel, ottenendo le risorse dalla Ue. E che starà al prossimo governo portare avanti.