18 gennaio 2018
BIOGRAFIA DI CARLO DE BENEDETTI
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BIOGRAFIA DI CARLO DE BENEDETTI –• Torino 14 novembre 1934. Ingegnere. Imprenditore. Presidente del gruppo L’Espresso. Ex presidente di Cir (Compagnie industriali riunite).
• Ultime Nel 2013, indagato dalla procura di Ivrea per omicidio colposo e lesioni plurime colpose insieme al fratello Franco per episodi di avvelenamento da amianto tra i dipendenti della Olivetti. I fatti sarebbero avvenuti tra gli anni ’70 e gli anni ’90.
Sempre nel 2013, è finito nel registro degli indagati il management della Tirreno Power, società proprietaria della centrale a carbone di Vado Ligure di cui Carlo De Benedetti controlla il 50%. Il reato ipotizzato è di disastro ambientale. Nel 2012, la Commissione tributaria regionale di Roma ha condannato la Cir a una una multa di circa 225 milioni di euro per evasione fiscale. La Cassazione ha sospeso il pagamento, ma si attende la sentenza di merito. Nel 2011 ha costituito la fondazione Tog (Togheter to go) per la riabilitazione dei bambini colpiti da patologie neurologiche, in cui si impegna con tutta la famiglia. Nel 2009 ha lasciato tutte le cariche aziendali ad eccezione della presidenza del gruppo L’Espresso-Repubblica. Nel 2012, il passaggio di consegne è stato completato con la cessione ai figli Rodolfo, Marco e Edoardo del pacchetto di controllo della Cir. Dal 2009 è cittadino svizzero: «Abito a St. Moritz e ho una patente svizzera. Resto anche cittadino italiano. Sono residente fiscalmente in Italia e continuerò a pagare le tasse in Italia».
• Vita Figlio di Rodolfo (1892-1991), imprenditore. Esilio in Svizzera nel 1943 per sfuggire alla persecuzione antisemita. Laurea in Ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino (1956), lavorò in azienda col padre (Compagnia italiana tubi metallici flessibili, poi Gilardini), ne prese la guida nel 1968, nel 1976 fu chiamato alla Fiat come amministratore delegato: «Posi una condizione: vengo ma come azionista: vendo la mia azienda alla Fiat e col ricavato compro il 5% della Casa torinese. Ecco, quello fu l’errore: mi illusi di essere un copadrone». Non passarono neanche quattro mesi (4 maggio-25 agosto 1976) che se ne andò sbattendo la porta.
A lui si deve però il progetto di una nuova automobile spaziosa, robusta ed economica: la futura Panda.
• Lasciata la Fiat, fondò la Cir, trasformando una vecchia conceria in una finanziaria. Quotata in Borsa, la sistemò dentro un’altra sua finanziaria, la Cofide. È uno straordinario giocatore di Borsa (Danilo Taino: «Uno degli investitori europei più brillanti degli ultimi decenni»).
• Entrò in Olivetti nel 1978, proprio nel momento in cui l’azienda stava trasformandosi da meccanica in elettronica. Ad onta di vari accordi internazionali, non riuscì a riportarla agli splendori dei tempi andati (quelli di Adriano Olivetti, morto nel 1960), anzi dovette ristrutturarla e ricapitalizzarla. Nel 1997 (31 luglio) lasciò che Colaninno se la prendesse. Gli avversari lo accusano di aver speculato lungamente al ribasso sul titolo, adoperandosi in prima persona per deprimerlo (interpretazione della lunghissima discesa della quotazione negli anni Novanta). Massimo Mucchetti scrisse che alla sua uscita da Ivrea «aveva distrutto ricchezza per seimila miliardi di lire». Sua risposta: «Capii per tempo che in Europa non si potevano più fare computer. E l’Olivetti è stato l’unico produttore europeo a sopravvivere dandosi una nuova missione: gli altri sono spariti. Omnitel, da me fondata, si è rivelata la più grande creazione di valore della storia recente d’Italia». Ma perché lasciò poco prima del boom? «Fui costretto dalle banche. Soprattutto da Mediobanca. Nessuna capì le potenzialità di Omnitel. Che cos’erano i debiti della vecchia Olivetti davanti alle prospettive di quel gioiello? Niente. Ma le banche misuravano solo i metri quadri dei capannoni».
• I momenti clou della sua attività negli anni Ottanta furono tre: il blitz sul Banco Ambrosiano; l’internazionalizzazione del business attraverso l’acquisto della Valeo e l’Opa su Société Générale de Belgique; il tentativo di creare un forte polo alimentare comprando la Sme dall’Iri.
• Nel 1982 Roberto Calvi (1920-1982), presidente dell’Ambrosiano e vero padrone del Corriere della Sera (super iscritto alla Loggia P2, reduce dal carcere, poco dopo cadavere sotto il Blackfriars Bridge di Londra), pressato da monsignor Marcinkus (patron dello Ior, la Banca vaticana) che voleva il saldo dei suoi crediti, chiese aiuto a De Benedetti che comprò per 32 miliardi di lire il 2 per cento della Banca. Davanti al rifiuto di fargli vedere i conti, De Benedetti minacciò di chiamare la magistratura venendo precipitosamente liquidato con un congruo margine (fallito il Banco Ambrosiano, fu processato e condannato a 4 anni e 6 mesi, condanna poi annullata dalla Cassazione).
• Preso un terzo della francese Valeo, fabbrica di componenti per automobili (un’acquisizione che fece epoca: il pacchetto fu rivenduto nel 1996 per più di un miliardo di dollari), tentò nell’88 di dare l’assalto alla Société Générale de Belgique ma fu bloccato dalla politica. «Peccai di troppa arroganza, perché dichiarai di aver vinto prima del tempo, e di troppa prudenza, perché lanciai l’Opa, alla quale non ero obbligato, quando avevo il 15%: sarebbe bastato rastrellare in silenzio fino al 30%, e sarebbe stata fatta». Il caso Sme ha occupato le pagine dei giornali fino ai nostri giorni per via del processo a Berlusconi e Previti: l’Iri, guidata in quel momento da Romano Prodi, aveva deciso di disfarsene e accettò l’offerta di De Benedetti: 397 miliardi di lire da pagare in 18 mesi più altri cento miliardi provenienti da Mediobanca e Imi (soci finanziatori). Disse De Benedetti alla conferenza stampa del 30 aprile 1985: «È la prima volta in Italia che un privato acquista da un ente pubblico pagando con soldi veri, non con pezzi di carta o con impegni a babbo morto». Vittorio Malagutti: «De Benedetti, che già controllava l’Olivetti, era allora più che mai sulla cresta dell’onda. Pochi mesi prima, a febbraio, aveva rilevato la Buitoni, marchio storico dell’industria italiana. Messe insieme, Sme e Buitoni facevano dell’Ingegnere il più importante imprenditore italiano del settore alimentare, con un giro d’affari di 4.000 miliardi di lire. Colossi come Barilla e Ferrero venivano distanziati. Sotto l’ombrello della Cir, la holding di De Benedetti, erano raccolti marchi importanti come Motta e Alemagna, i pelati Cirio e le patatine Pai». Prodi, all’epoca iscritto senz’altro tra i democristiani di sinistra, aveva però fatto tutto a gran velocità e senza avvertire il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, socialista e dunque per definizione nemico dei democristiani di sinistra. Craxi, ricevute le telefonate di protesta dei concorrenti della Sme decise di mandare a monte l’affare e chiese a Berlusconi il varo di una cordata alternativa (la Iar, Berlusconi più Barilla più Ferrero, offerta 600 miliardi). «Il 15 giugno si arriva al colpo di teatro. Tutto da rifare. La Sme torna a casa. Darida (ministro delle Partecipazioni statali) annuncia che la holding pubblica dell’alimentare dovrà essere messa all’asta tra i vari soggetti che hanno manifestato interesse. Infatti, oltre alla Iar, si fanno avanti un paio di altre cordate, tra cui una delle Coop rosse. Per Prodi è uno schiaffo pesantissimo. Non a caso in un memoriale inviato otto anni dopo al pool di Mani pulite, Prodi descrive il suo primo mandato alla guida dell’Iri come il “suo Vietnam” e certo la vicenda Sme è una delle sconfitte che brucia di più. Anche De Benedetti, ovviamente, la prende molto male. Il 25 giugno del 1985, durante l’assemblea della Buitoni, l’Ingegnere spiega a un azionista che l’acquisto della Sme non gli è riuscito perché “ci sono state interferenze politiche e perché non ho pagato mazzette”» (Malagutti). Respinti tutti i ricorsi, De Benedetti decise di lasciar perdere rinunciando all’alimentare (nel marzo 1988 Buitoni fu acquistata dalla Nestlé). Da queste vicende ebbe origine il famoso processo Sme, basato sull’ipotesi che il giudice Filippo Verde avesse emesso una sentenza a favore di Berlusconi perché corrotto da Previti (alla fine Verde fu assolto, Previti condannato per corruzione semplice). Nel 1992 le attività Sme furono vendute separatamente a un prezzo superiore ai duemila miliardi di lire, circostanza che alimentò la polemica intorno al prezzo concesso a De Benedetti da Prodi. La “guerra” per la Mondadori (1991) fu una battaglia legale molto complicata: De Benedetti, azionista di minoranza, strinse un patto con Luca Formenton, il cui pacchetto, ceduto a una certa data e per una certa somma, gli avrebbe dato la maggioranza. Silvio Berlusconi, a sua volta titolare di una quota di minoranza, prese a corteggiare Formenton alla sua maniera, facendogli percepire simpatia, stima, calore umano e promettendogli più denaro di quello che offriva De Benedetti. Riuscì infine a convincerlo. Trattandosi però di un pacchetto di azioni ordinarie, e avendo De Benedetti passato gli ultimi due anni a rastrellare Mondadori privilegiate e risparmio (ne aveva quasi il 70 per cento), il duo Berlusconi-Formenton ottenne la maggioranza nell’assemblea dei soci ordinari (a cui le privilegiate e le risparmio non erano ammesse), mentre De Benedetti controllava la maggioranza nelle assemblee straordinarie, cosicché Mondadori e le sue partecipate (tra cui Repubblica, posseduta al 50 per cento) furono paralizzate: ogni decisione dell’assemblea ordinaria veniva rovesciata dalla straordinaria e viceversa. Andreotti, presidente del Consiglio in quel momento (1991), mandò Giuseppe Ciarrapico a metter pace. Il famoso lodo obbligò le parti ad accettare la spartizione: la Mondadori a Berlusconi; Repubblica, L’espresso, la catena dei giornali locali Finegil a De Benedetti. Nel 1995, Stefania Ariosto, già testimone al processo Sme, accusa Cesare Previti di aver pagato una tangente ad un componente del collegio arbitrale, il giudice Vittorio Metta. Nel 2007, Previti è riconosciuto colpevole di corruzione in atti giudiziari. In sede civile, si giunge a sentenza definitiva nel 2013: la Cassazione stabilisce che senza l’apporto del giudice corrotto, la Mondadori sarebbe stata assegnata a De Benedetti. La restituzione non è più possibile, ma Fininvest viene condannata ad un risarcimento monstre in favore di Cir di 494 milioni di euro.
• Interessante riavvicinamento nel 2005 quando De Benedetti, che in opposizione a Berlusconi aveva fondato l’associazione Libertà e Giustizia, gli espose il progetto di lanciare un fondo di private equity dedicato ai risanamenti aziendali, denominato M&C. «Tu quanto metti? – mi ha chiesto Berlusconi – Cinquanta milioni di euro. E allora, se sei d’accordo, farei altrettanto anch’io». Preoccupato delle reazioni di Repubblica e di Libertà e Giustizia, che s’erano pubblicamente indignati per l’intesa, De Benedetti decise infine di restituire i soldi.
• Politica «Il dna di un imprenditore è incompatibile con la politica, il politico deve essere democratico mentre l’uomo d’impresa deve essere autocratico» (a Dario Di Vico).
• Tifoso del Partito democratico, di cui rivendicò, prima ancora che nascesse, la tessera numero uno. Considerava Prodi di passaggio («Deve comportarsi da amministratore straordinario di un Paese in difficoltà»), puntando dichiaratamente su Veltroni e Rutelli. Votò il sindaco alle primarie ma dopo la sconfitta romana dichiarò: «Questo giocare a dama con i candidati probabilmente non è quello che la gente si aspetta». Alle primarie del 2013 ha dichiarato di votare per Renzi.
• Famiglia Fratello di Franco Debenedetti (scritto tutto attaccato, vedi).
• È sposato con Silvia Cornacchia (in arte Monti, già Donà delle Rose), ha tre figli (Edoardo, Marco, Rodolfo).
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BIOGRAFIA DI EUGENIO SCALFARI –
• Civitavecchia (Roma) 6 aprile 1924. Giornalista. Il più grande del Novecento italiano: ha partecipato da protagonista alla fondazione dell’Espresso (con Arrigo Benedetti e Carlo Caracciolo), ha creato dal nulla un quotidiano, la Repubblica, del tutto nuovo per linguaggio e formato (i precedenti esperimenti col tabloid in Italia erano stati dei disastri). L’influenza esercitata da Scalfari e da Repubblica non solo sul giornalismo, ma anche sulla politica, sulla cultura e sul costume italiano è tale che si può prendere il 14 gennaio 1976, primo numero del giornale, come una data ante quem e post quem scrivere la storia del nostro dopoguerra.
• I capitali furono messi da Carlo Caracciolo, editore dell’espresso, dalla Mondadori (che aveva il 50%), dallo stesso Scalfari (poco più del 10%), da un piccolo nucleo di soci minori. La storia precedente di Scalfari era molto semplice: aveva diretto l’Espresso, aveva firmato con Lino Jannuzzi un’inchiesta clamorosa sul Sifar, il piano Solo e le mire golpiste del generale De Lorenzo (querelati tutti e due, condannati a 15 e 14 mesi di reclusione benché il pm Vittorio Occorsio, che aveva letto i fascicoli prima che il governo li secretasse, avesse chiesto l’assoluzione), aveva pubblicato con Giuseppe Turani un saggio capitale sui poteri di quegli anni (Razza padrona, Feltrinelli 1974: storia della borghesia di Stato, attraverso le enormi ricchezze parassitarie accumulate con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e fino a Cefis. L’espressione “razza padrona” era entrata nel linguaggio comune), era stato prima consigliere comunale a Milano (1963) e poi deputato del Psi in Parlamento (elezioni del 1968). Craxi aveva manovrato per sabotarne la rielezione e da allora data l’odio implacabile tra i due, un odio che superava le guerre interne al Psi e aveva qualcosa di fisico, qualcuno diceva che provassero ripugnanza uno per l’altro.
• Scalfari era affamato di potere. Fondò Repubblica dicendo che voleva dar voce alle classi produttrici del paese, gli imprenditori e i lavoratori, contro le classi parassitarie che, evidentemente, votavano Dc. Mistica dell’eleganza, del calzino lungo, della upper class democratica oppure, secondo l’espressione dei nemici, capofila dei radical chic, seduttore delle dame rosse che si facevano belle della loro larghezza di vedute continuando a frequentare i salotti dei padroni e andando in vacanza a Cortina e a Saint-Tropez. In ogni caso, Scalfari pensava a un giornale d’élite, che fosse comprato per secondo, senza la cronaca («niente vecchiette sotto il tram»), senza lo sport. Poche pagine, molti commenti, idee, chicche e possibilmente «cose che non hanno gli altri». Mise in circolo fin dal primo numero l’espressione “palazzo”, diventata anche questa lingua comune, per indicare l’insieme delle persone che contano. Siccome non s’intendeva affatto di quotidiani, credette che circondando di ragazzini un gruppo di grandi firme (Sandro Viola, Fausto De Luca, Bocca, Aspesi, la Mafai, Peppino Turani, Terzani) e qualche instancabile culo di pietra (Gianni Rocca) si sarebbe fatto il prodotto che diceva lui, e magari a basso costo. Politicamente si collocava in un’area sterminata che cominciava dai repubblicani e finiva con gli autonomi, cioè i lembi non clandestini del brigatismo. La sua origine di settimanalista portava però nel mondo spento dei quotidiani una propensione al retroscena, alla prospettiva, al passo lungo che i quotidianisti non avevano, un piglio diverso nelle interviste, una sapienza grafica, una cultura fotografica (anche se ancora invisibile perché all’inizio, di foto, Repubblica ne aveva davvero poche). La conoscenza dell’economia, in un mondo di professionisti, da questo punto di vista, quasi del tutto analfabeti, illuminava le informazioni di una luce completamente nuova, anche se Scalfari ne sapeva forse troppo: a suo tempo la presidenza del Consiglio gli aveva bloccato una rubrica di commento sulla Borsa che teneva in televisione, perché gli operatori avevano protestato sostenendo che influenzava i corsi. Le grandi relazioni potevano garantire, e avrebbero garantito, un flusso di informazioni riservate da far invidia a un servizio segreto. Scalfari, al tavolo della riunione mattutina, faceva sentire la voce di questi suoi informatori: per esempio il presidente della Repubblica Pertini, o il presidente del Consiglio Cossiga o Forlani o Spadolini o soprattutto De Mita, Enrico Cuccia, ministri a iosa, notabili democristiani come Bisaglia o Franco Evangelisti, che cominciava sempre con un “ciao, Eugè” –, i capi dei sindacati, i capi delle industrie e, insomma, tutto il potere dispiegato che non vedeva l’ora di parlargli. Premendo un tasto del telefono, Scalfari ne faceva risuonare le voci nella stanza dove i redattori ascoltavano rapiti e in perfetto silenzio perché l’interlocutore dall’altra parte non capisse di non essere solo. La riunione, un rito su cui si è giustamente e a lungo favoleggiato, cominciava alle dieci e mezza del mattino e finiva dopo l’una. All’inizio, cappuccino e cornetto per tutti, poi analisi critica del giornale e discussione che poteva finire su qualunque argomento, molto libera, anzi, con una parola adorata da Scalfari, molto “libertina”. Usare la parola “dirigere” per quel direttore è poco. Scalfari era tra l’altro un bellissimo uomo, alto, dritto, la barba bianca, la voce suadente e certe volte addirittura cantante. I redattori, senza distinzioni di sesso o di età, ne erano, più che sedotti, soggiogati.
• Il giornale andò male i primi due anni e si stava per chiuderlo quando Moro fu rapito e le Brigate Rosse scelsero Repubblica come veicolo della loro comunicazione. La prima foto Br faceva vedere Moro prigioniero che teneva in mano Repubblica. Scalfari, profittando della contemporanea crisi di Paese sera (che agli occhi dei giovani di sinistra aveva perso ogni credibilità, essendo definito ormai con la qualifica spregiativa di “piciìsta”), imbarcò così il pubblico simpatizzante dei movimenti o comunque di sinistra, ma stufo del grigiore del Pci. Repubblica profittò poi della crisi di copie e credibilità dell’Unità e mise nel suo lettorato un’importante quota di comunisti. Infine il Corriere della Sera (siamo nel 1981) fu scoperto come propaggine della P2 e Scalfari (a cui era stata persino offerta una quota di quel giornale e l’avrebbe presa se la redazione non si fosse sollevata contro quel tipo di partnership) ci diede dentro con i valori della democrazia e la difesa delle istituzioni repubblicane, e portò a casa perciò una bella fetta di pubblico borghese, benpensante, moderato nella sostanza, e moderno nell’apparenza. Tra l’altro Repubblica, così nuova, così diversa, faceva trend ed era assai elegante averla sotto il braccio, un vero prodotto di potere e di contropotere. Alla fine del 1981, con il giornale ampiamente sopra le 200 mila copie, il problema economico era alle spalle.
• Intanto Scalfari, esercitando la sua dote migliore, cioè l’attitudine al libertinaggio, ne aveva fatto un prodotto mai visto in Italia, un giornale-opera d’arte. La cultura al centro, bloccata su due pagine (il famoso “paginone” di Rosellina Balbi), il fatto del giorno, fosse di Interni, Esteri o Spettacoli, piazzato in due-tre per dare luce a tutto il giornale, la 5 come pagina di snodo tra l’avvio e la zona di riposo successiva, la 6 per i commenti con la vignetta di Forattini al centro (aveva già fatto a Paese sera il Fanfani in forma di tappo, ma fece a Repubblica lo scandaloso Berlinguer in pantofole). Scalfari capì presto che non si poteva sfuggire ai fatti, che la cronaca e lo sport ci volevano, che tanto valeva puntare a essere non il secondo giornale, ma il primo. E quindi: reclutamento di grandi firme, soprattutto di quelle che fuggivano dal Corriere piduista. Dopo Pansa, che era venuto prima del sequestro Moro -, Ronchey, Cavallari, Biagi, Arbasino (invano corteggiò Stille, che accoglieva in redazione esponendo cartelli di benvenuto). Intanto Repubblica aveva imposto un nuovo modo di titolare, un nuovo modo di raccontare lo sport (grazie al lavoro di Mario Sconcerti che fece venire Brera, Gianni Clerici e Mario Fossati, e inventò Mura e la Audisio), un nuovo modo di porsi di fronte alla politica, che imparò presto che Scalfari andava trattato non come un giornalista qualunque da irreggimentare ma come un capo-partito, con cui si doveva scendere a patti. Scalfari lo sapeva, era quello che voleva, e faceva politica dalla mattina alla sera, cioè pilotava con sicurezza il giornale in un mare che era legittimo chiamare “aperto”, cioè non soggiogato meschinamente alle segreterie dei partiti, per niente vincolato ai piccoli cabotaggi dei capibastone con cui si facevano e si fanno i conti tutti i giorni. È memorabile, quanto alla forma, la sua pretesa che il giornale fosse bello, le pagine armoniose, i titoli come versi, le notizie vicine coerenti una con l’altra. E, quanto alla sostanza, che i problemi venissero legati ai fatti e i fatti avvinti a un personaggio. Molte volte, ma davvero molte, lo si è visto buttare via la pubblicità, con gran sgomento della Manzoni che gliela vendeva, e giustificarsi con queste quattro parole: «Mi lorda il giornale».
• Nel 1986, quando Repubblica cominciò ad allegare fascicoli creando così un nuovo mercato (di fascicoli in edicola, a quel tempo, non c’era neanche l’ombra), superò il Corriere e divenne finalmente il primo quotidiano. Al Corriere, che fece uscire Sette il 12 settembre 1987, rispose col Venerdì, mandato in edicola il 30 ottobre. Si ragionava ormai in termini di centinaia di migliaia di copie, di miliardi e miliardi di fatturato pubblicitario e di giornali che potevano pesare anche un chilo. Al di là di tutto, la spiegazione del successo di Repubblica era semplice: il giornale non aveva padroni, nel senso che i due azionisti (Mondadori e l’espresso) erano editori, non avevano da riscuotere o da pagare pedaggi particolari alla classe politica in altri settori dell’economia ed erano soggiogati anche loro dalla personalità dell’uomo, al cui volere e potere si inchinavano sempre. Scalfari aggiungeva volentieri che una delle ragioni della forza di quell’impresa stava nelle sue dimensioni contenute, un fortino munitissimo e inespugnabile dalle corazzate che incrociavano al largo (cioè la grande industria) perché non aveva porte che ne consentissero l’ingresso.
• Nella battaglia tra Berlusconi e De Benedetti (finita nel 1991: vedi anche CIARRAPICO Giuseppe), si schierò fin dal primo istante con De Benedetti. Partecipava con gioia da tifoso alla sua incetta di Mondadori privilegiate, e nominava Luca Formenton con quella certa piega delle labbra che designava i portatori (spiritualmente parlando) di calzini corti. Dopo il lodo Ciarrapico, vendette anche lui il suo dieci per cento e incassò una cifra mai accertata, ma che la voce comune indica in cento miliardi di lire. L’ultimo giorno radunò la redazione e spiegò che la metafora del fortino doveva considerarsi sbagliata. Disse proprio: «Mi sono sbagliato». Non di fortino si doveva parlare, ma di capanna. Una capanna circondata da grattacieli, che lo sviluppo della città avrebbe inevitabilmente spazzato via. Vendere era stato perciò un atto di prudenza e saggezza, che garantiva per il futuro la stessa libertà di cui il giornale aveva goduto in passato. La redazione accolse il discorso con un silenzio assoluto e Scalfari, alzandosi in piedi e stirandosi leggermente i fianchi, chiese sottovoce al fido Gianni Rocca: «Come mai non applaudono?». Ha abbandonato la direzione di Repubblica il 5 maggio 1996 (gli è subentrato Ezio Mauro), voci immediatamente successive di suoi tentativi di reimpadronirsi del giornale o di fondarne un altro sono state seccamente smentite. Scrive per Repubblica un lungo editoriale ogni domenica. Umberto Eco ha accettato di cedergli la metà del suo spazio sull’Espresso: tengono la rubrica in ultima pagina una settimana per uno (quella di Scalfari si chiama “Il vetro soffiato”). Ha pubblicato libri di riflessioni, meditazioni o filosofia che hanno avuto un esito, in termini di vendite e di accoglienza critica, incerto. Fece rumore il rifiuto da parte di Roberto Calasso, editore della prestigiosa casa editrice Adelphi, di stampare il suo Incontro con Io, uscito poi per Rizzoli nel 1994. Da ultimo l’autobiografia L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi 2008).
• Ha raccontato la sua giovinezza in La sera andavamo in via Veneto (Mondadori, 1986): l’amicizia adolescenziale con Calvino, che fu suo compagno di scuola nel liceo Cassini di Sanremo, il padre Pietro, nativo di Vibo Valentia e direttore del casinò di Sanremo, dove Scalfari approdò quattordicenne, l’iscrizione alla facolta romana di Legge, l’adesione al fascismo (Ajello: «collaborando ai giornali di regime, il mezzo-sangue calabrese mostra d’aver preso a tal punto sul serio l’ideologia vigente, e il dovere di servirla con rigore ideale, da meritarsi l’espulsione dal Pnf, sigla che designa ormai un establishment frollato»), poi, caduto il fascismo e finita la guerra, al liberalesimo. Assunto nel 1947 all’ufficio esteri della Banca Nazionale del Lavoro (benché non abbia troppa dimestichezza con le lingue straniere), entra poi nel gruppo di intellettuali che dà vita al Mondo di Pannunzio e che frequentava il caffè Rosati e via Veneto. Trasferito a Milano nel 1950, conosce Tino e Mattioli e la cerchia di intellettuali meneghini che la domenica pomeriggio si riunisce a discutere nello studio dell’avvocato Mario Paggi, ex dirigente del Partito d’Azione. Da collaboratore di giornali, ne divenne fondatore facendo nascere nel 1955, insieme con Arrigo Benedetti, l’espresso, di cui poi sarà direttore fino all’inizio dell’avventura politica con il Psi.
• Il 6 luglio 2007 ha smesso di tenere la rubrica di corrispondenza con i lettori del Venerdì.
• Vedovo di Simonetta De Benedetti (1921-2006), unica figlia del Giulio De Benedetti che fu direttore della Stampa (per lei erano le seconde nozze), ha regolarizzato con il matrimonio il 7 luglio 2008 la sua trentennale relazione con Serena Rossetti. La coppia è poi apparsa a Cortina un mese dopo le nozze per un dibattito tra Scalfari e Sandro Bondi, e si è fatta finalmente fotografare.
• Due figlie: la fotografa Enrica (Roma 23 aprile 1955), titolare dell’agenzia Agf, la giornalista Mediaset Donata (Roma 9 giugno 1960).
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IL TRAMONTO DI DE BENEDETTI – FRANCO BECHIS, LIBERO 16/1/2018 –
Ha fatto più governi lui di qualsiasi presidente della Repubblica. Ne ha ricavato forse più di tutti dividendi personali e aziendali. A sentire lui ha mosso pure le fila di qualsiasi leader di sinistra nella seconda Repubblica. Da Romano Prodi, che in fondo si era inventato molti anni prima insieme ad Eugenio Scalfari e Ciriaco De Mita. A Francesco Rutelli e Walter Veltroni: fu lui a rivendicare l’idea stessa del Pd. Fino a Matteo Renzi a cui si sentiva libero (parole sue verbalizzate) di dare del «cazzone», e a quel governo guidato da Pd di cui si sentiva da vecchio il gran burattinaio. Un potere talvolta reale, altre volte forse millantato nella leggenda di se stesso che ha sempre cercato di creare. Sono proprio le vicende degli ultimi giorni però ad avere sbriciolato quel trono in parte immaginario su cui sedeva Carlo De Benedetti. L’ingegnere che una ne faceva e mille disfaceva andando incontro anche a rovinose avventure imprenditoriali (dalla smargiassata della Sgb quando disse sarcastico ai belgi che la «ricreazione era finita» e dovette tornarsene con le pive nel sacco fino alla triste e ingloriosa fine dell’Olivetti), è davvero giunto a fine corsa. E nel modo peggiore: la pubblicazione di quei verbali di interrogatorio Consob sul caso delle banche popolari gli fanno terra bruciata intorno, lo espongono a brutte figure con tutti i protagonisti citati (da Renzi, a Pier Carlo Padoan, fino ai vertici della Banca d’Italia), gli fanno giungere sberleffi perfino dalle sue creature (Repubblica, i figli, Eugenio Scalfari) e nel momento della gran caduta lo costringono ad osservare con una bile grossa come un cocomero la fenice del gran nemico Silvio Berlusconi risorgere dalle ceneri relegando all’ospizio proprio lui che ancora pensava di muovere i burattini della politica.
Quei verbali sono la pietra tombale per De Benedetti. Non tanto per i guai giudiziari che con la vicenda della speculazione lampo sulle banche popolari avrebbe potuto rischiare e da cui per l’ennesima volta l’ingegnere sembra essersi salvato per il rotto della cuffia. Ma per quelle smargiassate offerte agli ispettori Consob su tutti i potenti, da Renzi stesso di cui si sentiva il primo consulente, rivelando di avere inventato e avergli imposto il job act, all’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro con cui era inutile parlare di economia, che tanto poco ne capiva.
Non ha gradito ovviamente nessuno dei personaggi citati, e la terra bruciata intorno a De Benedetti emerge anche plasticamente da quell’intervento televisivo di Scalfari davanti a Bianca Berlinguer in cui il fondatore di Repubblica mostra il sollievo di essersi finalmente liberato dell’ingegnere che alla sua età più nulla può fare contro di lui. Ma a bruciare più di tutto a De Benedetti è la sua pensione obbligata con il ritorno sullo scenario politico di quel Berlusconi di cui aveva provato da anni a celebrare il funerale.
La stagione che si aprirà con le prossime urne comunque vada il risultato ha una certezza: non avrà più spazio di manovra il gran burattinaio. Magari non vincerà il centrodestra, ma Berlusconi sarà in qualche modo azionista del sistema di governo che ci si inventerà, e lo sarà probabilmente anche quella parte di sinistra che l’ingegnere ridicolizzava apertamente davanti alla Consob. E c’è di peggio per uno come De Benedetti: il Berlusconi di oggi ha preso incredibilmente il suo posto nello scenario internazionale di oggi. Il Cavaliere non ha mai goduto di gran credito presso le cancellerie e i salotti che contano in Europa e negli Stati Uniti. È sempre stato ritenuto un inaffidabile Pierino da tenere in poco conto o fare sloggiare quando lo si riteneva di danno, come accadde nel 2011. La storia in questi anni si è ribaltata, e Berlusconi ora perfino agli occhi di Angela Merkel è seriamente ritenuto il perno della stabilità italiana, il politico di riferimento di ogni tipo di estabilishment nazionale e internazionale, il solo che in Italia sia in grado di mettere le briglie alle bizze populiste.
Povero ingegnere, chissà quanto gli si ingrosserà il fegato in tempi così. Ma prima o poi quel ritiro dalle scene del potere tocca a tutti, e anche chi come lui si definisce «Grande vecchio», deve rassegnarsi a quel destino...
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GIORGIO DELL’ARTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 4/12 /2017 –
Un anno fa Renzi perdeva il referendum e niente rappresenta meglio le difficoltà in cui da allora è entrata la sinistra dell’intervista che Carlo De Benedetti ha rilasciato ieri ad Aldo Cazzullo.
• Perché?
Si comincia con una clamorosa sconfessione dell’uomo che ha fondato il giornale della sinistra e con decine di editoriali ha tentato di orientarla in un senso allo stesso tempo solidaristico e liberale: Eugenio Scalfari. Scalfari, una sera a DiMartedì
, richiesto di dire come si sarebbe comportato se si fosse trovato a dover scegliere tra Di Maio e Berlusconi, rispose che piuttosto che un grillino a Palazzo Chigi, allora meglio perfino Berlusconi. Gli pareva con questo d’aver espresso soprattutto il proprio disprezzo per i grillini, ma il mondo ha interpretato il paradosso come una sorta di riapertura al Cav, tanto che Michele Serra ha subito scritto, proprio su Repubblica che lui, invece, tra Di Maio e Berlusconi sceglierebbe Di Maio («la terza opzione tra i due è la cicuta, ma non so dove si compera») e a queste sono seguìte altre meraviglie e altri sopraccigli alzati, sicché Scalfari è dovuto tornare sull’argomento, spiegando che Berlusconi non lo voterebbe mai, eccetera eccetera. Senonché ieri Carlo De Benedetti, editore di Repubblica, mostra di non avergliela perdonata: «Scalfari è stato talmente un grande nell’inventare Repubblica e uno stile di giornale che farebbe meglio a preservare il suo passato». Sta dicendo che ha avuto un lapsus?
«Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso. Berlusconi è un condannato in via definitiva per evasione fiscale e corruzione della giustizia. Se non fosse per l’età, sarebbe un endorsement sorprendente per uno come Scalfari che ha predicato, sia pure in modo politicamente assai cangiante, la morale». C’è stata una frattura personale tra lei e il fondatore?
«Penso che la risposta di Scalfari abbia gravemente nuociuto al giornale».
• Accidenti. E perché questa conversazione imbarazzante rappresenterebbe le difficoltà attuali della sinistra?
De Benedetti non esclude di votare scheda bianca. Alla domanda «Renzi l’ha delusa?» risponde: «Renzi ha deluso non solo me, ma tantissimi italiani. È stato un elemento di novità e freschezza, e ha fatto bene il primo ministro. Ma ha sbagliato sul referendum, e soprattutto ha sbagliato dopo a non trarne le conseguenze. Avrebbe dovuto prendersi due o tre anni di pausa. Andare in America, studiare, imparare, conoscere il mondo. Magari l’avrebbero richiamato a furor di popolo. Invece ha avuto l’ansia di chi si dimette ma non vede l’ora di ricominciare». Quando Cazzullo chiede: «L’avventura di D’Alema?», De Benedetti risponde con una sola parola: «Ridicola».
• Quindi l’elettore di sinistra, oggi, è in realtà un signore o una signora che nell’urna metteranno una scheda bianca.
La confusione regna sovrana. Due pagine prima Andrea Camilleri, lo scrittore che ha inventato il commissario Montalbano, confessa che non saprebbe per chi votare. E il suo interlocutore è proprio Massimo D’Alema.
• Pure, ieri a Roma, all’Atlantic Live, sembrerebbe esserci stata una riunificazione a sinistra. Mdp, Si e Possibile hanno eletto Pietro Grasso loro candidato premier e si presenteranno alle elezioni con una lista unica.
L’impressione è che li tenga uniti soprattutto il sentimento anti-Renzi. E che alcuni di loro siano fuggiti dal Pd solo perché sicuri che Renzi non li avrebbe ricandidati.
• È possibile che non si debba mai dare il minimo credito a nessuno?
Ha ragione. In realtà Grasso, acclamato dalla platea anche con una standing ovation, ha pronunciato un bel discorso: «Qui ci sono persone che credono nelle proprie idee. È una bellissima immagine che dà forza e energia. Quando ho lasciato il gruppo del Pd mi hanno offerto seggi sicuri, mi hanno detto di fermarmi un giro, di fare la riserva della Repubblica. Mi dispiace questi calcoli non fanno per me. Serve un’alternativa all’indifferenza e alla rabbia inconcludente dei movimenti di protesta, alle favole bellissime che abbiamo sentito raccontare per decenni. Tocca a noi offrire una nuova casa a chi non si sente rappresentato. Una nuova proposta per il paese. Io ci sono. Fare politica è un onore, non una vergogna. C’è in gioco il futuro dell’Italia e questa è la nostra sfida: battersi perché tutti, nessuno escluso siano liberi e uguali, liberi e uguali». “Liberi e uguali” è appunto il nome del nuovo raggruppamento, il quale sottintende che al momento non siamo né liberi né uguali. Civati, il leader di Possibile, ha concluso: «Renzi, Berlusconi, Di Maio: uno la caricatura dell’altro».
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PAOLO BRACALINI, IL GIORNALE 18/12/2017 –
C’è maretta in casa De Benedetti e il problema è Repubblica. Stavolta non c’ entra direttamente il caso Scalfari (la sua uscita pro Berlusconi ha traumatizzato tutta la galassia dei «repubblicones»), ma non siamo troppo lontani. Dopo Repubblica che redarguisce il suo fondatore, ecco infatti Repubblica che si dissocia dal suo storico editore. All’ Ingegnere, a lungo numero uno del gruppo editoriale da poco ceduto ai figli, non piace granché il quotidiano e lo ha fatto sapere pubblicamente, per giunta in un’ intervista al competitor Corriere della Sera. Una stroncatura per interposto quotidiano che ha fatto saltare sulla sedia la redazione di Repubblica e costretto il figlio di De Benedetti, Marco, attuale numero uno del gruppo, a prendere le distanze dal padre a nome dei vertici e degli azionisti della Gedi Spa (già Gruppo Espresso).
Ma cosa aveva detto di tanto imbarazzante l’ Ingegnere? Dopo l’ apprezzamento dovuto al restyling grafico, Carlo De Benedetti ha demolito la linea di Repubblica: «Un giornale ha bisogno di spifferi, correnti, energie. Un giornale non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve; ma deve avere anche spigoli».
Non solo, anche la doppia direzione Calabresi-Cerno non gli sta bene («Resto contrario, nessun grande giornale al mondo utilizza questa formula»). Per finire, la frecciata alla prole: «Sono stato l’ unico imprenditore italiano a donare l’ azienda ai figli». Concetto ripetuto: «La Cir, l’ azienda che ho loro donato, ha più di 300 milioni di liquidità», subito dopo aver definito «commovente» la scelta di Luciano Benetton di tornare a guidare il gruppo di famiglia rovinato dalle scelte dei successori (chiaro il messaggio?).
Su pressione del comitato editoriale, e dopo aver già dato spiegazioni in un incontro con il cdr, Marco De Benedetti ha dovuto placare gli animi dei giornalisti con una nota scritta e pubblicata dal quotidiano per smentire coram populo l’ Ingegnere. «L’ intervista rilasciata da mio padre qualche giorno fa ha generato disorientamento, con riferimento alla posizione della società nei confronti di Repubblica - dichiara De Benedetti jr - Le opinioni espresse nell’ intervista non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello del vertice della società, che sono tutti determinati a proseguire sulla strada tracciata».
Compreso il mantenimento della doppia direzione, scelta osteggiata da Carlo De Benedetti. Il vero motivo, raccontano gli spifferi, è che l’ ex editore sarebbe stufo della direzione di Mario Calabresi, che avrebbe tentato senza successo di sostituire con Massimo Giannini, l’ ex vice di Ezio Mauro da lui rimpianto («è stato un grandissimo direttore») al timone di Repubblica.
L’ operazione è stata stoppata dai vertici della Gedi, in particolare dall’ amministratore delegato Monica Mondardini, dominus del gruppo con cui i rapporti non sarebbero più ottimi. In un retroscena di Dagospia si racconta che è «la Mondardini, cara a John Elkann, che ha apparecchiato la coppia impossibile Calabresi&Cerno», mentre secondo altre indiscrezioni di Lettera43 «il sempre più malmostoso Carlo a tutti i giornalisti della prima nidiata scalfariana che lo vanno a trovare racconta che Repubblica è allo sbando, sia dal punto di vista della linea politica che dei risultati economici».
Le critiche dell’ Ingegnere sarebbero rivolte alle scelte editoriali, ma anche alla fusione con la società editrice di Elkann (De Benedetti parla bene solo di Marchionne), e poi alla scarsa incisività del figlio Marco come editore. L’ ottantatreenne Carlo, invece, sembra sempre affascinato dal mondo dei giornali.
Che ne voglia comprare un altro?
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COMUNICATO CDR REPUBBLICA 17/12/2017 –
Accogliendo la richiesta dell’ assemblea di redazione di Repubblica, che ha sollecitato un chiarimento ai vertici del gruppo Gedi dopo l’ intervista dell’ ingegnere Carlo De Benedetti al Corriere della Sera, il presidente Marco De Benedetti ha inviato questa lettera, nella quale ribadisce quanto affermato davanti al Cdr mercoledì.
«L’ intervista rilasciata da mio padre qualche giorno fa ha generato disorientamento, con riferimento alla posizione della Società nei confronti di Repubblica.
Desidero ribadire quanto ho avuto modo di illustrare nella riunione di mercoledì scorso, e cioè: - Ho assunto la Presidenza del Gruppo a testimonianza del fatto che, insieme ai miei fratelli quali azionisti di riferimento, credo nel valore del giornale e del Gruppo e sono impegnato a lavorare per un futuro solido e vincente.
- Abbiamo varato un’ importante riforma del giornale che rappresenta molto di più di un semplice restyling. Riflette la consapevolezza della necessità di dare risposte nuove che mettano al centro qualità e professionalità e la volontà di fare un giornale che vada incontro a quanto ci chiedono i nostri lettori, che sono e sempre saranno l’ unico nostro riferimento.
- Determinati a mantenere la leadership nel digitale, abbiamo ampliato la nostra offerta con Rep.
- D’accordo con Mario Calabresi, abbiamo rafforzato la Direzione con la nomina di Tommaso Cerno a condirettore.
Le opinioni espresse nell’ intervista non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello del vertice della Società, che sono tutti determinati a proseguire sulla strada tracciata.
Nell’ augurarvi buon lavoro, vi invio i miei migliori saluti».
Il Cdr di Repubblica accoglie la lettera del presidente Marco De Benedetti come una pubblica e ferma dichiarazione di apprezzamento e condivisione assoluta del progetto di riforma del giornale. Ci auguriamo che il gruppo Gedi continui a sostenere con determinazione, e con i necessari investimenti, l’ impegno dei giornalisti di Repubblica per confermare il ruolo di primo piano del quotidiano nel panorama editoriale del nostro Paese. Nell’ interesse del giornale stesso, dei lettori e dell’ informazione.
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PIERANGELO SAPEGNO, TISCALI.IT –
Se c’è una cosa che ha sempre saputo fare, è quella di trasformare in oro quasi tutto quello che tocca. L’ultima volta, diciamo che ha esagerato: appena ha saputo da Renzi che la riforma delle banche popolari sarebbe andata in porto, ha chiamato il suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo, e ha investito 5 milioni, realizzando plusvalenze di 600mila euro. La Consob ha ipotizzato il reato di Insider trading. L’ex commissario Salvatore Bragantini, editorialista del Corriere dall’aplomb parecchio borghese e abbastanza raffinato, ha commentato che è stato perlomeno «sconveniente». Molto english.
La guerra di Segrate
I suoi nemici, invece, si sono scatenati, Berlusconi in testa: «E’ stato preso con le mani nella marmellata, e se fosse capitato a me sarei già in croce». Poi La Stampa tira fuori una inchiesta sulla cessione del Milan, e Il Giornale risponde che quel falso scoop è un agguato al Cavaliere per vendetta e per distogliere l’attenzione dai peccati dell’Ingegnere. La solita guerra. Sui giornali va avanti dal ‘91, la famosa «guerra di Segrate», rimbalzata da allora fra imboscate e puntate sanguinanti.
Due grandi capitalisti
E’ il volto del capitalismo italiano, che ogni tanto sembra quello da una baruffa di cortile fra comari inacidite. Ma non date retta alle apparenze. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nella Terra più familista del mondo, quasi schiacciata sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Per farlo, hanno anche finito per identificarsi nel bipolarismo all’italiana, seduti sugli scranni opposti della singolar tenzone, uno contro l’altro armato.
Gli esordi Carlo De Benedetti
In realtà, Carlo De Benedetti, torinese, classe 1934, figlio di Rodolfo, ebreo sefardita convertito al cattolicesimo ma costretto a scappare in Svizzera per le leggi razziali, negli Anni 80, quando lui e Silvio cominciavano a farsi largo nella piazza ribollente dell’economia nostrana, affermava candidamente di sentirsi il paladino del capitalismo italiano, asserendo cose molto poco di sinistra e molto più liberali: «Ho 49 anni, mi piace fare il capitalista e sono fiero di esserlo». Che lo sapeva fare se ne erano già accorti tutti. Dopo la laurea in ingegneria e il servizio militare negli alpini da soldto semplice nel ‘72 aveva acquisito la Gilardini con il fratello Franco, trasformandola in una holding di successo: da 50 a 1500 dipendenti. Con la famiglia erano andati a vivere nella palazzina Agnelli di corso Matteotti, che Truman Capote nel 1969 su Vogue aveva descritto come «splendore italiano» con i tasti da premere per convocare all’istante forbiti maggiordomi in livrea. Carlo era andato a scuola con Umberto, dalla terza media alla quinta ginnasio, e fu lui a portarlo alla Fiat dopo i primi successi imprenditoriali.
La tigre
Nei famosi 100 giorni della sua governance, in azienda lo chiamavano «la tigre», perché era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli», come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio. Alla faccia della sinistra. Gianni Agnelli aveva accettato il consiglio del fratello perché era affascinato dalla sua intraprendenza e dal suo dinamismo oltre che dalla sua immagine di successo. Solo che dopo neanche 4 mesi, lui (e Romiti) lo fecero fuori. La famiglia Agnelli non voleva ridurre in modo drastico il numero degli addetti alla manodopera. Queste difficili scelte, raccontò poi lo stesso De Benedetti, furono prese 4 anni più tardi, ma dopo aver perso «una barcata di soldi».
Il giovane capitalista
Come si vede, il giovane Carlo è prima di tutto un capitalista, niente affatto diverso da tutti gli altri. Dà lavoro anche a costo di toglierlo. Ma i capitalisti non sono dei benefattori. Sono dei costruttori della società. Nel 1976, l’Ingegnere ha rilevato le Concerie Industriali Riunite cambiando la denominazione della società in Cir, e trasformandole in una grande holding industriale. Nel ‘78 entra in Olivetti, azienda ormai decotta e dal futuro nero. Bruno Visentini, gentiluomo del partito d’azione, presidente del Pri e dell’Olivetti, gli dice: «Non guardi i bilanci, se non accetterà mai. Ma sono convinto che solo uno come lei può riuscirci». E difatti ce la fa. Trasforma l’azienda, producendo personal computer e ampliando la gamma dei prodotti con stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. In 24 mesi, l’Olivetti passa da una perdita di 70 miliardi all’anno, a un profitto di 50 che raggiungono i 350 nel 1983, quando apre il capitale sociale a un colosso americano, l’At&t, in cambio del 25 per cento del capitale. L’anno dopo ingloba l’inglese Acorn Computer.
Imprenditore illuminato
La sua immagine di imprenditore illuminato, che dichiara di votare repubblicano, conquista l’opinione pubblica. Rispetto al mondo conservatore del capitalismo italiano, De Benedetti è un innovatore, un visionario. E Corrado Passera dice che «rappresentava il simbolo della nuova imprenditoria di mercato», in contrapposizione ai grandi gruppi e alle famiglie potenti del nostro Paese. Lui in quei tempi dichiara che non si può ghettizzare il pci e comincia a instaurare un dialogo con Berlinguer. Intanto, nell’85 acquista la Buitoni Perugina, venduta 3 anni dopo alla Nestlé. Nell’81 è entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, lasciando però subito l’istituto dopo appena due mesi, sulla soglia del fallimento. Fu accusato di aver fatto plusvalenza da 40 miliardi, processato per bancarotta fraudolenta, condannato con sentenze poi annullate dalla Cassazione perché non esistevano i presupposti per i quali era stato processato.
La finanza e la Borsa
Carlo De Benedetti, imprenditore e scalatore, è diventato anche e soprattutto finanziere e sta per diventare pure editore. Attirato dal boom della Borsa, che gli ha permesso di raccogliere 3 miliardi di mezzi freschi, ha cominciato ad acquisire una miriade di partecipazioni finanziarie e assicurative. Gianni Agnelli lo definisce «un centometrista». Compra di tutto e parte alla conquista dell’estero. Dopo aver tentato di acquisire, assieme a Bruno Visentini, il Corriere della Sera travolto dallo scandalo P2 e aver tentato di mettere le mani sul Tempo di Roma, nel 1987, attraverso le partecipazioni della Arnoldo Mondadori entra nel gruppo Espresso e Repubblica, il giornale che lui aveva già finanziato. Nel 90 comincia la guerra di Segrate con Berlusconi, temporaneamente chiusa nel 2011 con un risarcimento danni di 500 milioni di euro che la Fininvest ha dovuto versare alla Cir, perché la precedente sentenza del 1991 sarebbe stata in realtà comprata corrompendo un giudice. Nel 96, a causa di una grave crisi dell’Olivetti, De Benedetti decise di lasciare l’azienda, dopo aver fondato la Omnitel, venduta a Colaninno (forse, col senno di poi, l’unico errore commesso).
Il rapporto con la sinistra
In tutto questo tempo, ha assunto anche un ruolo molto importante nella sinistra italiana, diventandone persino, nella sua ultima incarnazione, un profeta abbastanza pessimista. Dal suo pulpito giudica storia e personaggi. Su D’Alema: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente». Bersani: «Lo stimo moltissimo, ma come leader è assolutamente inadeguato. Lui e D’Alema stanno ammazzando il pd». Matteo Renzi, invece, prima «è un fuoriclasse». Poi si dichiara deluso da lui. Fino a definirlo «un cazzone». Ma anche gli altri sono delusi da De Benedetti. Corrado Passera racconta che quando aveva cominciato a lavorare con lui, «era una vera speranza per l’industria e il capitalismo italiano. Poi ha deluso tutti».
Vince da solo
Se gli parli assieme, dicono però che sembra sempre quello di prima, un uomo molto lucido e molto veloce, capace di leggere con grande rapidità quello che sta accadendo e di coglierne gli sviluppi, in economia come in politica. Poi, è ovvio, puoi scegliere di stare con chi vince o con chi perde. L’impressione è che lui abbia sempre vinto da solo. Ancora adesso non ha perso il suo istinto degli affari, a 83 anni, nel suo esilio dorato di Marbella, dove è riuscito a mettere su un proficuo business immobiliare, acquistando immobili per almeno venti milioni, secondo Franco Bechis. Ma ora è un uomo libero, probabilmente felice, dopo aver passato il suo impero ai tre figli, il cento per cento della scatola di controllo.
L’avvicendamento a La Repubblica
A Repubblica non è più lui quello che conta. E si vede. Rodolfo è molto diverso, formazione liberal, uomo di potere, ma non di establishment. E Marco, sposato con la giornalista Paola Ferrari che si sarebbe candidata nel centrodestra, lo ha già criticato per la sua presa di posizione contro Scalfari, che aveva detto di preferire Berlusconi a Di Maio. La risposta di Scalfari, in pratica «me ne fotto», è già abbastanza indicativa. E’ cambiato tutto, il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, il fondatore Eugenio Scalfari tiferebbe Berlusconi, dimenticando 20 anni di battaglie e nel crepuscolo della galassia Espresso Repubblica c’è un po’ la nostra storia. Il tempo che è passato, è già andato via. Anche le vecchie guerre sono già finite. Adesso ce ne sono altre. Prima o poi ce ne accorgeremo.
MARCO GALLUZZO, CORRIERE DELLA SERA 18/1 –Su una cosa è d’accordo con Berlusconi, «ha ragione quando dice che se vincesse il M5S sarebbe un disastro e bisognerebbe scappare». Fra l’altro, rivela, con il suo avversario storico si è sentito dopo 15 anni. «Dopo che Scalfari ha fatto la sua stupidaggine in trasmissione, mi ha telefonato e mi ha detto: è finita la guerra, “non ci sono più i comunisti, tu sei di sinistra io di destra, ma qui ci sono altri problemi per il Paese”, ma io non faccio politica, ho risposto che non avevamo niente da dirci».
Carlo De Benedetti rilascia un’intervista quasi senza filtri a Lilli Gruber, su La7. Non ha peli sulla lingua, nemmeno su Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica : «Non voglio più commentare un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Ha detto che se ne fotte delle mie critiche? Con me deve stare zitto, gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato».
L’ex editore del gruppo Repubblica , che dice oggi «del tutto assenti» i rapporti con quello che fu il suo quotidiano, ne ha un po’ per tutti. «Di Maio parla di favori nei miei confronti? Non sa neanche di cosa parla, l’incompetenza al potere, poveraccio». E se Scalfari aveva detto «meglio Berlusconi di Di Maio», ora De Benedetti corregge, «meglio nessuno dei due». E Renzi? «Sono deluso, ma alla fine, vista l’offerta politica, voterò Pd».
Invece la polemica per la sua telefonata a Renzi, l’investimento in Borsa sulle Popolari, è solo «tutto un po’ ridicolo. Era un segreto di Pulcinella la riforma. Era nel programma di Renzi che tra l’altro non mi ha detto niente di particolare e se lo avesse voluto fare non lo avrebbe fatto davanti ad un usciere. Mi ha solo detto che la riforma sarebbe stata data. Nessuna parola su un decreto o su una data». E la telefonata con il broker, chiede la Gruber? «Al mio broker parlo tutte le mattine è una mia abitudine. Perché gli ho detto delle Popolari? Perché ho pensato che questo affare sarebbe maturato un giorno o l’altro. Se sapevo che il mio broker era intercettato? No, non lo sapevo. Forse non avrei detto "me lo ha detto Renzi" ma solo perché non aggiungeva nulla. Era pleonastico».
È da respingere la contestazione di una certa contiguità con il potere: «Da quando ho 40 anni ho visto tutti i governatori della Banca d’Italia. Con i premier, invece, faccio fatica a trovare uno che non abbia visto. Da Craxi a Berlusconi a Prodi a D’Alema. Sono stato a cena a casa Clinton, ho fatto colazione con Bush senior, con Kohl, Schroeder. Il problema non esiste. Questo è provincialismo».
Ancora sulle Popolari: «Il polverone è stato solo uno sfizio di Vegas, presidente Consob, che è stato scornato». Il futuro? «Voglio fondare un altro quotidiano? Sono monogamo e Repubblica è il mio unico amore anche se oggi i rapporti sono assenti ».
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PAOLO G. BRERA, LA REPUBBLICA 18/1 –
La riforma delle Popolari era «il segreto di Pulcinella», dice Carlo De Benedetti a Otto e Mezzo: è il nucleo dell’autodifesa con cui ieri ha risposto in tv all’accusa di aver approfittato di informazioni riservate per ottenere ingenti guadagni illeciti in Borsa. Lilli Gruber parte da qui per un’intervista in cui l’ex editore di Repubblica ha usato parole durissime sul fondatore Eugenio Scalfari e sui vertici del quotidiano che avrebbe «perduto l’identità».
Quanto alle Popolari « a gennaio 2015 — chiede Gruber — parlò con Renzi; il giorno dopo chiamò il broker e guadagnò 600mila euro. Una informazione decisiva?». «Ridicolo. Ne parlavano tutti, di una riforma. Renzi mi disse: guarda che quella cosa che stava nel mio programma la faremo. Ma prevedendo la Borsa potesse scendere, mi sono coperto». Non ce ne sarebbe stata ragione, sostiene, se avesse saputo del decreto imminente.Liquida come «rapporti normali» quelli con il vicedirettore di Bankitalia, Fabio Panetta; e come una sciocchezza che gli fornisse segreti spendibili in Borsa: «È solo uno sfizio di Vegas, presidente Consob messo in minoranza. Cerca un seggio, credo ci riuscirà con Fi» . E «assolutamente normali» sostiene siano anche gli incontri frequenti coi leader delle istituzioni: «Credo di aver visto tutti i governatori, da Carli in avanti». Lo stesso per i presidenti del Consiglio in carica, di idee anche molto diverse: « Berlusconi e Cossiga, Emilio Colombo, Andreotti, Prodi, D’Alema... C’è un provincialismo preoccupante», dice, «se vedevo Thatcher o Blair mica era grazie a Repubblica, no?» .Si parla di elezioni, poi: «Renzi mi ha deluso, ma vista l’offerta politica voterò Pd», dice bocciando ogni alternativa, da « Salvini e compagni che parlano di razza bianca» a Di Maio che «sarebbe un disastro: l’incompetenza al potere » ; fino a Berlusconi che «ha corrotto i giudici nella battaglia di Segrate» . Il Pd, dice, «è l’unica offerta di governabilità, non tanto per le idee ma per gli uomini». Eppure, con Berlusconi rivela una telefonata, «la prima da 15 anni. L’ho sentito dopo che Scalfari ha fatto la sua stonatura in tv (disse: tra Berlusconi e Di Maio scelgo il primo, ndr). Non poteva pensare fosse un’idea autonoma di Eugenio » . E incalzato da Gruber, affonda: «Tra i due non scelgo né l’uno né l’altro. Se uno lo fa ha problemi di vanità. Eugenio è molto anziano non più in condizione di rispondere. Lasciamo perdere. Io sono stato fondatore di Repubblica, con Scalfari: nel ’ 75 cercava soldi per fare un giornale, glieli detti io. Mi piaceva il progetto, ma avevo totale sfiducia editorialmente. Scalfari dovrebbe ricordarsi quando, negli anni ’ 80, lui e Caracciolo erano tecnicamente falliti: misi 5 miliardi di lire contribuendo a salvarli; e ho dato un pacco di soldi pazzesco a Eugenio quando volle lasciare le quote: può solo stare zitto tutta la vita. Poi parli di Draghi, del Papa, di quelle cose di cui si diletta. Con me è stato assolutamente ingrato».
Per Repubblica giura amore, ma è durissimo: «Ci ho solo pagato prezzi. È la mia folle passione per il giornale che dura anche oggi. Per questo — dice — sono triste quando vedo che perde identità. È nato per essere un giornale politico, e la politica per 40 anni si è fatta su Repubblica. Oggi non più». Sbaglia il direttore Calabresi? «Non son qui per dare pagelle, ma il giornale ha perso identità e mi addolora», dice. Critico anche il giudizio sull’editoriale con cui Repubblica, di fronte alle accuse al suo ex editore per l’affaire Popolari, ribadì l’autonomia della testata: «La forma era sbagliata, compreso non firmare: ciascuno deve avere il coraggio di farlo. Giustissimo dire che gli affari di De Benedetti non avevano a che fare conRepubblica, forse però potevano ringraziare per l’indipendenza che ho dato io a loro, e ci ho rimesso la Sme».
Altre idee in pillole: la tessera n. 1 del Pd l’ha favorita? «Zingales è un ignorante: mai avuto neanche quella della bocciofila». Vero che vuole fondare un altro quotidiano? «Mai nella vita: sui giornali sono monogamo». Repubblica «è stata sempre dalla parte giusta nelle grandi battaglie. Per questo è stata sulle palle a tanta gente». E allora che consiglio darebbe oggi a direttore e manager? «Manzoni diceva che il coraggio, se uno non l’ha, nessuno glielo può dare».
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COMUNICATO DEL CDR DI REPUBBLICA –
Il Comitato di Redazione respinge le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall’Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari. Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno del Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Ma vogliamo tranquillizzare Carlo De Benedetti: l’identità e il coraggio cheRepubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda. L’assemblea dei redattori diRepubblica si riunirà oggi per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant’anni si è costruito.
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INDIPENDENZA E LIBERTÀ AL SERVIZIO DEI LETTORI – LA REPUBBLICA 13/1 –
Di fronte alle notizie e alle polemiche che coinvolgono Carlo De Benedetti, a lungo editore di questo giornale, la direzione di Repubblica sente la necessità di rivolgersi a tutti voi lettori per salvaguardare un patrimonio di fiducia maturato nel tempo.In merito alle vicende giudiziarie e di regolazione dei mercati, che faranno il loro libero corso e che riguardano investimenti personali e rapporti privati dell’Ingegnere con esponenti politici e istituzionali, ci teniamo a sottolineare che nessun interesse improprio ha mai guidato le scelte giornalistiche diRepubblica e nessun conflitto di interessi ne ha mai influenzato le valutazioni.Le posizioni che il giornale ha preso in questi anni sono il frutto della libera scelta della direzione e dei giornalisti, nella linea tracciata da Eugenio Scalfari e poi proseguita da Ezio Mauro. Un Dna a cui il giornale ha sempre fatto riferimento e che ha custodito nel passaggio delle generazioni come un bene prezioso.I lettori conoscono questo impegno giornalistico e civile, un giornalismo di indipendenza e libertà a cui siamo sempre stati fedeli e che continuerà ad essere la cifra di Repubblica. I rapporti, i giudizi e le iniziative di Carlo De Benedetti sono fatti personali dell’Ingegnere. Questo giornale ha sempre avuto a cuore la propria indipendenza e goduto di una totale libertà di scelta.Prese di posizione, campagne di stampa, scelte editoriali ed errori li abbiamo fatti da soli, nella fatica del lavoro quotidiano, convinti di dover rispondere soltanto ai lettori e alle regole del libero giornalismo, a nessun altro interesse, debole o forte che sia, lontano o vicino.
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VITTORIO FELTRO, LIBERO 16/1 –
Ieri mattina la lettura dei giornali è stata particolarmente amena. L’ articolo più spassoso lo abbiamo letto su la Repubblica, un editoriale irresistibile, presumibilmente scritto dal direttore, Mario Calabresi, nel quale si dice con forza che l’ editore, Carlo De Benedetti, non conta un cacchio in redazione, è un estraneo. In altri termini più espliciti, il padrone non sarebbe padrone in casa sua. Pertanto le sue vicende personali e finanziarie non sarebbero tenute in considerazione dai cronisti.
Calabresi, detto l’ orfano, un ragazzo talmente simpatico da aver digerito gli assassini di suo padre come una foglia di lattuga scondita, ci vuol far credere che De Benedetti quando frequenta la Repubblica, e parla al personale, nessuno lo ascolta, viene preso sotto gamba come se fosse un qualunque Pinco Pallino. Mario, fammi il piacere: vai in mona. Non c’ è anima che ti possa credere.
È vero che i giornalisti italiani sono i più liberi del mondo di attaccare l’ asino dove vuole il proprietario dell’ azienda. Ed è altrettanto vero che tu sia indipendente, ma solo da te stesso. Per capirlo basta aver letto la Repubblica dal 1976 in poi. Ogni direttore ha tenuto, legittimamente, una linea rigorosamente di sinistra. Ci sarà un perché, caro Calabresi.
Quando sei stato assunto da De Benedetti, con lui avrai fatto due chiacchiere. Non dirmi che avete sorvolato sulla politica e sui fatti privati del tuo potenziale datore di lavoro. Io ho guidato sette o otto pubblicazioni più o meno di spessore, pertanto conosco la delicata materia. Editore e direttore si mettono d’ accordo. A intesa raggiunta, non sui dettagli, si firma il contratto e a questo ci si attiene. Il fondo di Mario uscito ieri è una coltre di ipocrisia infantile, non contiene un solo aggettivo o un solo sostantivo digeribile.
La Repubblica si è dilettata anni e anni ad attaccare violentemente Berlusconi però non ha sprecato una virgola per criticare De Benedetti, che in politica ha avuto ed ha un’ importanza enorme. Ovvio. Carlo è il padrone della baracca. Se lo sfrucugli oltre che un uomo libero sei un cretino, dato che lui, se gli rompi le scatole, ti licenzia e tu vai a casa con la coda tra le gambe. E allora, illustre direttore dei miei stivali, risparmiaci le tue lezioncine e ammetti che sei soltanto un impiegato, di lusso, ma pur sempre un impiegato che esegue ordini così come fan tutti i miei colleghi, me compreso.
Lo stesso discorso va fatto per Maurizio Molinari, numero uno della Stampa di Torino, eccellente professionista, e lo affermo con cognizione di causa, essendo egli stato mio giornalista all’ Indipendente, il quale ieri ha dedicato tre pagine per demolire Berlusconi, accusandolo di brogli nella vendita del Milan ai cinesi (cosa smentita per ora dalla Procura).
Molinari in realtà è stato abbastanza onesto: ha pubblicato un pezzo, sul proprio quotidiano, riguardante la vicenda di De Benedetti (suo editore) e delle banche popolari. Gliene diamo atto. Ma sul Cavaliere è andato giù assai più pesantemente, interferendo con veemenza nella campagna elettorale in corso.
Chissà per quale ragione ogni qualvolta ci si avvicina ad elezioni, la stampa cosiddetta iperdemocratica, illuminata e progressista si scatena per sputtanare Silvio (che per altro, spesso, si sputtana da sé) con l’ evidente intento di fargli perdere consenso. Da un ventennio e passa ormai assistiamo a questo desolante spettacolo, il tiro al bersaglio di Arcore. Fatichiamo a comprendere la ratio di ciò.
Silvio è in politica dal 1993, un quarto di secolo, e ha dovuto combattere di più contro i media e la magistratura che non per conquistare suffragi. Ha governato in varie riprese per nove anni, gli altri 16 anni sono stati dominati dalla sinistra, ma addossano al Cav la responsabilità di ogni nefandezza compiuta da qualsiasi esecutivo, da quelli prodiani a quello montiano a quello lettiano, poi renziano e gentiloniano.
Vi sembra serio un simile modo di agire, amici della mia categoria? Non dico che dovreste vergognarvi, perché so che la pagnotta conta maggiormente della dignità, ma consentitemi di invitarvi a mantenere almeno un po’ di contegno. Berlusconi ha tanti difetti, però sempre meno di noi e comunque nella vita egli non si è distinto solamente per l’ attaccamento alle mignotte. Noi neanche a quelle per mancanza di mezzi.
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GIACOMO AMADORI, LA VERITA’ 13/1 –
Leggere la difesa dell’ ingegner Carlo de Benedetti davanti alla Consob che lo stava accusando di insider trading ci regala l’ immagine di un Marchese Del Grillo dall’ accento torinese. Sembra di vederlo lì, tronfio, mentre gioca al gatto con il topo con i due funzionari schiacciati dal suo carisma. «Usiamo come dire un atteggiamento un po’ inquisitorio, ma ci tocca», quasi si scusa uno dei due ispettori. «Ma è il vostro compito», lo assolve magnanimo Cdb. Il quale «sproloquia» (parole sue) sulle stanze del potere italiano, dove lui quasi può permettersi di aggirarsi in vestaglia.
Spiega di essere di casa a Bankitalia, dove frequenta il governatore Ignazio Visco «per parlare di problemi generali, però ecco anche nella mia veste di presidente dell’ Espresso mi interessa sapere che cosa pensi la Banca d’ Italia, e anche loro credo che abbiano interesse a vedere me, perché sono l’ ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia, ecco».
Immaginiamo la faccia dei due ispettori davanti a questa confessione, in un Paese in cui il termine «grande vecchio» evoca complotti e misteri irrisolti. Ma è chiaro che l’ ottantatreenne Marchese del Grillo sabaudo si diverte a impressionare i suoi inquisitori: «Insomma io ho cominciato un po’ prima di quelli che erano i miei colleghi, cioè Agnelli, Pirelli, a parte Gardini che si è sparato, ma diciamo facevamo parte di un certo establishment che oggi non c’è più; l’ unico superstite per ragioni anagrafiche, perché ero entrato in quel giro di persone più giovane; a 40 anni Agnelli mi aveva chiamato a fare l’ amministratore delegato della Fiat - che non è proprio una cosa normale - per cui sono entrato un po’ più giovane e mi sono trovato a essere l’ unico perché gli altri sono morti, ecco. Non per merito ma per decorrenza dei termini, come si dice».
Ma è sul rapporto con Renzi, trattato come una specie di famiglio, che Cdb si supera. Il 15 gennaio 2015, il giorno in cui il premier gli avrebbe soffiato la notizia sulla riforma in arrivo delle Popolari, si sarebbe recato a Palazzo Chigi solo per una forma di cortesia: «Sarebbe stato poco educato non riprendere i contatti con lui dopo che avevo fatto le vacanze di tre settimane, cioè roba seria, da vecchio che se lo può permettere. E allora sono andato da Renzi. Renzi era anche lui preoccupato della Grecia, ma diciamo però molto meno di Panetta (vicedirettore generale di Bankitalia, ndr), nel senso che poi a lui interessano sempre di più le cose italiane, e le cose di più breve termine».
Per De Benedetti a Renzi interessano «le cose più di quadro generale: un po’ perché di economia capisce onestamente poco, cioè non è la sua specialità, e un po’ perché, secondo me, non gli interessa neanche molto, cioè gli interessa di più la politica, lui è un uomo politico, veramente!». L’ Ingegnere ci tiene a far sapere che lui e Renzi sono in grande confidenza: «Parliamo delle cose più varie, che so del comportamento di un ministro () di che cosa aveva fatto o della nullità della, del ministro e del fatto che l’ altro non sapeva delle difficoltà di rapporti con il ministero dell’ Economia».
Quando Renzi, all’ epoca sindaco di Firenze, chiede all’ ingegnere di conoscerlo e di poter ricorrere a lui per ricevere consigli, Cdb diventa «l’ advisor gratuito, saltuario e senza impegni» del segretario del Pd, con una particolare licenza: «Con il diritto di dirgli che era un cazzone quando - chiedo scusa alle signore - mi sembrava fosse il caso. Sono cose che faccio. Per esempio adesso sull’ attacco alla Merkel non sono minimamente d’ accordo. Lui lo fa lo stesso, eh! Ma proprio perché io sono semplicemente un signore, un vecchio signore che ha la facoltà, il privilegio di essere ascoltato e la facoltà di dire quello che vuole».
De Benedetti respinge le accuse di insider trading sempre giocando sulla sua età: «Avendo compiuto 81 anni e desiderando anche avere una vita un po’ più tranquilla non mi caccerei in una situazione dove potrei perdere la reputation anche in relazione al fatto che l’ unica cosa che mi è rimasta, per mia volontà, è la presidenza dell’ Espresso, che se domani viene fuori che io ho fatto dell’ insider trading sulle banche Popolari io posso dimettermi dall’ Espresso, domani mattina, perché è una cosa che non sta bene».
Poi gli ispettori gli chiedono se abbia parlato con qualcuno degli argomenti affrontati con Renzi e in particolare della riforma delle banche Popolari.
La risposta è immediata: «Con Ezio Mauro: il direttore, l’ ex direttore di Repubblica, perché, normalmente, se ci sono degli argomenti che apportano un certo interesse per il giornale della parte, chiamiamola, Renzi, se intuisco che Nannicini è in crescita e Rosa è in decrescita nell’ opinione di Renzi dico a Ezio: "Guarda che ho sentito che quello lì è caduto un po’ in disgrazia". Però l’ unica persona è Mauro».
Il discorso di Cdb è un po’ ingarbugliato e i collegamenti logici poco chiari e allora l’ ispettore prova a domandare all’ ingegnere se sia sicuro di aver incontrato Mauro e di avergli riferito le questioni di cui aveva discusso con Renzi. De Benedetti ingrana una rapida retromarcia: «No, non sono assolutamente sicuro. Le dico: incontrato no, perché quella settimana non l’ ho incontrato.
Ho verificato l’ agenda. Mentre telefonate, ci parliamo due volte al giorno per cui non voglio, non glielo so dire, però a Mauro delle cose economiche e finanziarie non gliene fotte nulla proprio come sua mentalità per cui non parlo mai con lui quando c’ è qualcosa perché parlo con Fubini o qualcuno della parte economica».
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ANTONELLO PIROSO, LA VERITA’ 12/1 –
Antonello Piroso per la Verità
Leggete queste tre frasi. «Silvio Berlusconi piace perché è l’ opposto del virtuale, termine che ho pregato i colleghi di cancellare dal loro vocabolario: altro che virtuale!
Semmai Berlusconi è iperrealista, è l’opposto della plastica».
«C’è un Paese che sta andando in una direzione diversa da quella prevista dagli schemi di Repubblica».
«Il cosiddetto popolo di sinistra, a differenza del ceto politico (di riferimento), sa che si può marciare divisi e colpire uniti: almeno qualche volta. Perché ha ben chiaro chi è il nemico».
Tre tesi, un unico autore: Ezio Mauro, direttore di Repubblica dal 1996 al 2016.
Solo che le prime due sono del maggio 1994, cioè successive alla vittoria elettorale del Cavaliere contro «la gioiosa macchina da guerra» della sinistra di Achille Occhetto, e sono contenute in un’ intervista che Mauro, allora alla guida de La Stampa, diede a Prima comunicazione.
La terza, invece, è la chiusa dell’ editoriale che, in un crescendo di esortazioni e moniti pedagogici per «qualunque sinistra», l’ altro ieri Mauro ha firmato in prima pagina su Repubblica.
Intervento che si apriva con «una semplice domanda: chi è il nemico?».
Scritto proprio così: non avversario, non antagonista, bensì «nemico».
Che è, ca va sans dire, la destra, «la destra di oggi», quella di Trump ma quella italiana «ancor più», con Berlusconi che «sembra Camillo Cavour stravolto da Maurizio Crozza».
Insomma, Mauro è rimasto per un ventennio seduto sulla riva del fiume ad aspettare di vedere passare il cadavere politico di un «nemico», Berlusconi, mentre questi sembra destinato a condurre a una nuova marcia trionfale un centrodestra peraltro animato da sgangherate spinte centrifughe.
L’ analisi ha anzi subito un’ involuzione, dalla lettura lucida del 1994 alle odierne riflessioni, viziate da quello stesso errore di prospettiva che 24 anni fa il Mauro della Stampa imputava allo Scalfari di Repubblica.
Scalfari che è stato da Mauro indirettamente bistrattato, là dove lo critica -senza nominarlo- per aver dato il via al «giochetto di società nato su una scelta irrealistica tra Luigi Di Maio e Berlusconi», opzione ipotetica censurata anche da Carlo De Benedetti, già editore di Repubblica (Scalfari dal canto suo, quando in tv gli è stato chiesto come avesse reagito alla pubblica reprimenda di De Benedetti, ha soavemente replicato: «Non ho più rapporti con lui. Chi supera il decennio della morte, quello tra gli 80 e i 90 anni, e io sono a 94, ecco, chi ci arriva, scusate il linguaggio, se ne fotte». Game, set, match).
Ma c’ è di più. Nella sua invettiva, Mauro ha rimproverato ai leader di sinistra di non parlarsi, scegliendo un’ immagine («non risulta che i telefoni abbiano suonato») decisamente infelice.
Perchè se imputi a Matteo Renzi i suoi silenzi (e l’ assenza di un giudizio politico su Berlusconi, «lo attendiamo da vent’ anni»: un lapsus, evidentemente, perchè nel 1998 Renzi era un anonimo segretario provinciale del Ppi), risalta anche la tua, di latitanza, nel giorno in cui diventa di dominio pubblico la telefonata tra De Benedetti e il suo broker sulle informazioni privilegiate che l’ Ingegnere assicurava di aver ricevuto da Renzi stesso sulla riforma delle banche popolari, circostanza su cui non tu non spendi una parola, neppure en passant, mentre scrivi che «i telefoni tacciono» (e «i giorni passano», i figli crescono e le mamme invecchiano, e il Cavaliere, maledetto, è sempre lì...).
Insomma, la Repubblica delle idee confuse appare sempre più come un «arcipelago gulash», uno spezzatino abbastanza indigesto di amnesie, detti e contraddetti, in cui i quesiti metafisici di Michele Serra («Può un renziano sopportare Gustavo Zagrebelsky, e un antirenziano Massimo Recalcati? La domanda riguarda noi, comunità di Repubblica», che rimanda alla concezione tardosessantottina del giornalismo militante, in sottofondo lo slogan «La proprietà dei giornali è dei lettori», e come no) vengono shakerati con le esegesi -tra politica e arte- dello stesso Mauro e di Concita De Gregorio.
La quale ha raccolto il testimone di Ezio Mauro su un tema, quello del populismo, per illustrare il quale i due si sono addirittura infilati nella disamina ermeneutica di un celebre dipinto di Edward Hopper, Nighthawks (Sonnambuli), per elevare uno dei protagonisti della scena -un uomo solo, di spalle, con un cappello, intento a rimirare il bicchiere che ha tra le mani- ad emblema del sentimento antiestablishment di cui si nutre il populismo contemporaneo.
Scrive Mauro: «Quell’ uomo non parla, rimugina. Si capisce che ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza. Non crede più in nulla. Anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa: potrebbe raccontarlo ma preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Eppure, perché ci sembra di averlo già visto?
Perché è la nuova figura politica universale che attraversa l’ Occidente dall’ America all’ Europa, il risentimento che ovunque si mette in proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica, l’ outsider che infine prende il potere. O forse no, ma a lui basta aver scalciato l’ establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il resto, si vedrà».
Ohibò, niente meno? De Gregorio ci aggiunge del suo: «Nel quadro di Hopper, oltre all’ uomo solo di spalle e alla coppia luminosa di fronte - gli altri: gli inclusi e gli eletti - c’ è un quarto personaggio: il barista. L’ uomo vestito di bianco che osserva e che ascolta tutto. Il testimone. Credo che in questi ultimi dieci anni, mentre l’ onda del malessere montava, i testimoni - i giornalisti, gli analisti - abbiano sovente mancato il loro compito.
Con la sinistra che diventava, grosso modo, il luogo di una minoranza colta informata e tutto sommato ancora benestante, e la destra il riferimento delle periferie escluse. Da tempo ormai anche nelle urne il voto a sinistra arriva dai centri storici, quello alle destre e ai movimenti di rivalsa dalle periferie. Il contrario di quel che accadeva fino agli ultimi anni del Novecento. Ma il barista ha taciuto. I testimoni non hanno saputo o voluto raccontare gli umori degli avventori al banco».
Detto da una giornalista tornata a Repubblica, dopo essere andata da direttore a mettere la minigonna all’ Unità (lasciandola in mutande), suona quasi come un’ autocritica.
Che altro aggiungere? Come epigrafe, può forse valere quanto spiegava Mauro in quell’ intervista del 1994 (in cui alla domanda: «Ma a Repubblica lei ci va o no?», ribatteva: «È una storia che non esiste. Dalla Stampa io non mi muovo», in effetti lo fece due anni dopo): «Solo in Italia chiediamo ancora al giornale, in modo primitivo: con chi stai? Mentre la vera domanda che una società liberale dovrebbe rivolgere al giornale è: chi sei?».
Già. Lo stesso quesito che si pongono oggi -davanti a Repubblica- non pochi suoi lettori e, forse, non pochi suoi giornalisti.
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DAGONEWS 29/12/2017 –
Carletto De Benedetti, il pensionato più attivo del reame, è furioso col figlio Marco, dopo il comunicato scritto insieme al cdr di ‘Repubblica’ nel quale prendeva le distanze dal padre dopo la sua infuocata intervista al rivale Corriere.
Con la sua moglie e consigliera Silvia CDB medita la vendetta, e ha convocato alcuni giornalisti repubbliconi a lui fedelissimi per una riunione nella sua casa romana, che si svolgerà dopo le vacanze natalizie.
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VITTORIO FELTRI, LIBERO 22/12/2017 –
Largo ai vecchi, il pallino e lo scettro sono ancora nelle loro mani salde. Si dà il caso che l’ ottuagenario Benetton si sia impadronito di nuovo dell’ azienda da lui stesso fondata: intende riportarla agli antichi fasti. Gli auguriamo di farcela. Il suo sforzo comunque è lodevole e andrebbe premiato.
Anche Del Vecchio, quello degli occhiali, pure lui ottantaduenne, torna sui suoi passi e caccia quale cameriera a ore il suo amministratore delegato in verde età, e si rimette di persona a dirigere l’ ambaradan che gli deve il successo economico invero gigantesco.
Silvio Berlusconi, che ha un anno in meno e numerosi acciacchi di salute e giudiziari, brillantemente superati, si esibisce per l’ ennesima volta sulla pista politica e, contro ogni previsione, si sta battendo con forza per fare bella figura alle prossime elezioni di primavera. Forza Italia, che pareva spacciata, in realtà sta crescendo ed è sul punto di sfiorare il 20 per cento dei consensi. Sarebbe per lui un colpaccio se riuscisse a condizionare l’ esito delle consultazioni. Il che è probabile pur se non scontato.
Un Cavaliere in gran spolvero fa comunque tremare i polsi a coloro che prematuramente lo avevano dato per morituro. Un centrodestra rivitalizzato disturba i giuochi di qualsiasi partito tradizionale e rende incerto l’ esito delle votazioni.
Sia la sinistra sia la destra hanno vissuto momenti drammatici: fughe, scissioni, liti e addirittura risse. Tra i progressisti non c’ è ancora pace e non si ipotizza neppure la possibilità sia recuperabile un minimo di concordia; viceversa, tra i liberalconservatori, dopo le traversie del passato, si registrano tentativi di unità o almeno di alleanza. Ecco perché Berlusconi avanza nei sondaggi e si predispone a raccogliere alcuni suffragi persi per strada negli anni scorsi.
Nessun partito tradizionale, se si escludono rare eccezioni, ha un leader giovane in grado di sostituire quelli al tramonto. Ciò non accade soltanto in politica, bensì anche nell’ industria, nella iniziativa privata, pertanto riemergono i Matusalemme, sulla cui abilità c’ è poco da eccepire. Non è un fenomeno recente. È sempre stato così.
Le grandi imprese, che hanno favorito il miracolo economico tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, sono crollate allorché i fondatori hanno dovuto mollare le redini ai figli, i quali avendo studiato all’ università e imparato l’ inglese, si sono sentiti dei padreterni e invece erano dei coglioni col certificato accademico.
Non credo nei cicli e nei ricicli storici di Giambattista Vico, ma è un fatto che oggi come ieri i migliori sono i vegliardi e non è un incidente che molti di essi siano ancora alla ribalta, privi di successori. Da quando sono invecchiato, ho rivalutato la gerontocrazia. Non sono pronto a cedere gratis il mio posto di comando a un cretino qualsiasi, ci vuole qualcuno che me lo pigli perché meno scemo di me. P.S.: tanto per gradire, pure Carlo De Benedetti ha rottamato il figlio. Il torrone lo vuole menare lui.
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FABIO PAVESI, LA VERITA’ 20/12/2017 –
Agli atti per ora ci sono le dichiarazioni del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, che ha rivelato alla commissione d’ inchiesta sulle banche che ci furono dei colloqui tra Carlo De Benedetti e Bankitalia, nonché con l’ ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, pochi giorni prima del via libera al decreto sulle Popolari, datato 20 gennaio del 2015.
Lo stesso Vegas ha però aggiunto che l’ istruttoria avviata dalla stessa Authority ha portato all’ archiviazione sia per Renzi sia per De Benedetti. Anche la Procura di Roma ha precisato che nessun procedimento è stato avviato nei confronti di entrambi. Fin qui la cronache di queste giornate convulse, e del retroscena mai chiarito su chi abbia speculato sulle banche Popolari prima della notizia del decreto del governo.
Quel balzo del 60% di Banca Etruria, tra volumi intensi concentrati in poche sedute, non è passato inosservato. Non erano certo i piccoli soci a muoversi sul titolo, ma mani forti, dato che l’ amplissimo flottante ha bisogno di volumi alti per far salire il prezzo verso l’ alto con tanta veemenza. Tra queste mani forti continua ad aleggiare il sospetto che siano proprio state quelle di Carlo De Benedetti a muoversi con grande tempismo.
In favore di questo punto di vista depone quell’ intercettazione della Guardia di finanza nella quale l’ Ingegnere ordina, il 16 gennaio 2015 (il venerdì prima dell’ approvazione del decreto), a Intermonte Sim l’ acquisto di titoli delle Popolari che sarebbero state rivendute subito dopo fruttando una plusvalenza in pochi giorni. Va detto che anche in questo caso l’ indagine che coinvolse Intermonte è finita con un’ archiviazione.
Resta il fatto che l’ anziano patriarca dei De Benedetti non è nuovo alle scorribande borsistiche. L’ ex editore di Repubblica, che ha creato un impero industriale che si allunga da Cofide e Cir fino al gruppo L’ Espresso, a Sogefi e alla sanità privata e, fino al 2015, alla disastrosa avventura in Sorgenia, ha sempre coltivato la passione, tutta finanziaria, per la Borsa. Fin da giovane. L’ Ingegnere, infatti, ha sempre amato la finanza e l’ azzardo della scommessa al rischio.
Tutto lecito, per carità. Ma quella passione potrebbe averlo spinto oltre, nella caccia a informazioni privilegiate. Tanto più dall’ alto delle sue frequentazioni abituali con il Potere. Supposizioni ovviamente. Sta di fatto che uno come Carlo De Benedetti ha strumenti e competenze tali da non soffrire di asimmetrie informative, come il più classico dei piccoli cassettisti. Quella passione per il mordi e fuggi sui mercati è tra l’ altro più che redditizia a guardare i conti della sua holding personale, la Romed, dalla quale attinge le risorse per comprare e vendere titoli e coltivare la sua libidine per il trading.
La Romed possiede una serie di partecipazioni immobiliari in Francia (in venue de Montaigne a Parigi, in particolare, ma anche a Marbella, in Spagna) che ne costituiscono l’ ossatura storica, ma per una buona metà del suo bilancio, la Romed vive di compravendite di titoli. L’ Ingegnere compra e vende con assiduità sia titoli sia derivati di ogni genere: su indici, cambi, e ancora su titoli. Un vero giocatore di Borsa, anche acuto e fortunato nelle sue puntate.
Nel 2016 la Romed spa ha portato a casa 31,5 milioni di utili nel suo complesso. Ne fece oltre 36 nel 2015. Senza contare i ben 93,5 milioni di profitti del 2014. Un triennio straordinariamente ricco per l’ Ingegnere. Le sole attività finanziare in pancia a Romed, che valevano 65 milioni nel 2015, sono salite a 94 milioni nel 2016, ultimo bilancio disponibile. E quel po’ po’ di denaro investito in titoli ha fruttato laute plusvalenze lungo tutto un triennio. La differenza si vede dall’ approccio alla Borsa.
Nel 2014 i guadagni da trading a Piazza Affari sono assommati a 24 milioni, saliti a 37,5 milioni nel 2015 (l’ anno della presunta speculazione sulle Popolari) e attestatisi a 12 milioni l’ anno scorso. Giocare in Borsa rende bene al capostipite della famiglia De Benedetti. La passione per il rischio si nutre anche di ogni genere di derivato finanziario. Come una piccola banca d’ affari, Carlo De Benedetti muove da solo derivati per 34 milioni. Scommette su future (un tipo di contratto a termine) e opzioni, sia sugli indici che sui cambi, che su singoli titoli.
Certo, lo fa con soldi suoi, in fondo Romed è ben capitalizzata con un patrimonio che supera ampiamente i 100 milioni. Ma per una parte consistente Carlo De Benedetti si indebita per le sue puntate borsistiche. I debiti con le banche nel 2016 erano vicine all’ intero patrimonio: 123 milioni di prestiti. In fondo l’ Ingegnere è uno degli uomini più solidi e garantiti d’ Italia. Nessun rischio per gli istituti di credito a concedere finanziamenti al suo veicolo finanziario personale.
E qui però va in scena il vecchio copione secondo il quale le banche si garantiscono o dovrebbero farlo. Che vale per gli immobiliaristi rampanti con poco capitale, ma evidentemente vale anche per uno degli uomini più ricchi d’ Italia. Di quei 123 milioni di crediti vantati dalle banche verso Romed, ben 80 milioni risultano garantiti da quei titoli azionari che De Benedetti compra e vende, sui quali le banche hanno iscritto pegni. Va bene la fiducia, ma meglio coprirsi le spalle. Anche con Carlo De Benedetti.
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DAGONOTA 4/12/2017 –
In breve, e in greve, il pensiero di Cdb raccolto da Aldo Cazzullo sul Corriere: Cerno dovrebbe fare il direttore, Calabresi fuori al più presto la convivenza con un condirettore non esiste. Berlusconi è un nemico e basta. Sicuramente vorrei fare come Benetton. Il Pd non è più il mio partito finché c’è Renzi. La Boschi è molto brava ma non si staccherà mai da Renzi. Gentiloni mi piace assai ma troppo leale con Renzi. Mauro è stato il migliore direttore, anche più bravo del Fondatore Eu-Genio.
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LUCIANO CERASA, IL FATTO QUOTIDIANO 16/1/2018 –
La telefonata tra l’imprenditore Carlo De Benedetti e il suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo, e il guadagno di 600 mila euro fatto in Borsa a seguito del decreto di riordino delle banche popolari solleva parecchi interrogativi e non solo di natura penale. Fino a che punto e in quali forme è lecito, per un esponente del governo, intrattenere rapporti con operatori del mondo dell’economia e della finanza? Lo abbiamo chiesto all’economista Luigi Zingales, blogger e professore alla scuola di business dell’Università di Chicago.
Professore, che idea si è fatto?
L’impressione che si ha leggendo i giornali è molto negativa, per 25 anni ci siamo preoccupati del conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, ma sembra che anche quello che è stato il principale partito di opposizione per tanti anni non sia molto diverso: De Benedetti ha la tessera numero uno del Pd. La differenza è che Berlusconi possiede un partito, mentre l’Ingegnere lo influenza da fuori e non è la prima volta: ricordiamoci il famoso regalo delle licenze Omnitel nel ’94 ricevuto da Ciampi. Che fine hanno fatto i “girotondini?”
(nel 1994 l’Omnitel a maggioranza Olivetti si aggiudica le frequenze per i telefonini pagandole 750 miliardi di lire. Nel 1998, dopo 3 anni il valore di mercato di Omnitel era di 40 mila miliardi).
Lei parla di influenze e condizionamenti sul governo, ma la Procura ha archiviato il procedimento per insider trading e ne ha aperto invece uno sulla fuga di notizie che ha portato la telefonata sui giornali.
Lascio ai giudici decidere, però sicuramente dal punto di vista dell’opportunità politica quanto accaduto è indecente e inconcepibile. Questa cosa è venuta fuori da una commissione d’inchiesta parlamentare, solo per un caso abbiamo potuto avere uno spiraglio su questi rapporti e De Benedetti ha detto chiaramente che consigliava e dirigeva le azioni di Renzi. Questo è molto grave. A che titolo poi l’ingegnere parlava con il governatore della Banca d’Italia e con membri del direttorio come Fabio Panetta? Lui è un grande debitore delle banche, come il Monte dei Paschi di Siena, quindi parte in causa. Non credo che tutti i creditori in difficoltà abbiano lo stesso accesso.
Quanti imprenditori e finanzieri vorrebbero essere al posto di De Benedetti e sapere in anticipo le mosse del governo?
Mi domando quanti ce ne sono che già lo fanno. È una vicenda che non fa onore a nessuno delle persone coinvolte. Gli imprenditori vanno incontrati in appuntamenti istituzionali e verbalizzati, è diverso quando ci vai a cena e diventa non secondario quando il commensale è il proprietario di un grande giornale.
L’influenza reciproca si sarebbe estesa anche all’opinione pubblica oltreché alla sfera degli affari?
Altrimenti Renzi che cosa ne avrebbe avuto in cambio? De Benedetti dà segnali e indicazioni anche al gruppo editoriale che controlla, c’è un vantaggio dal punto di vista industriale che è anche una contaminazione del giornale che finisce per riflettere l’opinione del primo ministro. Se fossi un’azionista di Repubblica sarei molto seccato di quello che è successo, mina la fiducia dei lettori nel giornale. Gianni Agnelli si vantava di non aver mai guadagnato nulla con La Stampa e questo è terribile, vuol dire ammettere implicitamente che il vantaggio derivava solo dall’influenza che il giornale poteva avere sulla politica e sull’opinione pubblica. Devo dire che De Benedetti a differenza di Agnelli ci ha anche guadagnato.
Che valore economico ha secondo lei un rapporto privilegiato come questo?
Elevatissimo. Negli Stati Uniti un ricercatore ha condotto uno studio durante la presidenza Obama molto trasparente, monitorando gli incontri tra il presidente e gli esponenti del mondo economico-finanziario. Ogni volta che un amministratore delegato si incontrava con Obama la quotazione in Borsa della sua società schizzava del 2,5%, e stiamo parlando di un ambiente ben regolamentato. Ho il sospetto che in Italia sia molto, molto peggio: dal regalo a Omnitel agli accessi al credito, agli esodi anticipati dal settore della stampa, il guadagno di De Benedetti di 600 mila euro speculando sui titoli è solo la ciliegina sopra una torta molto, molto più grossa.
(Tra il 2012 e il 2015 sono stati concessi a L’Espresso 187 prepensionamenti di poligrafici e 69 di giornalisti, mentre per altri 554 lavoratori sono stati attivati contratti di solidarietà. Il contributo dell’Inps è stato di circa 30 milioni. Sulla vicenda indaga la Procura di Roma).
Che cosa si rischia negli Stati Uniti per l’insider trading?
Molti anni di carcere, si guardi il caso di Rajan Gupta, l’ex amministratore delegato di McKinsey (condannato nell’ottobre 2012 a due anni di carcere, un anno di libertà vigilata e a pagare 5 milioni di dollari, ndr). Di recente è stato introdotto uno Stock act per punire l’uso di informazioni privilegiate provenienti dal mondo politico.