Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2018
La seconda vita della musica. Il boom dello streaming a pagamento apre la porta alla quotazione di Spotify
La musica è finita, gli amici se ne vanno. L’industria delle sette note non è più quella di prima della crisi, quando a livello globale arrivava a muovere 26,8 miliardi di dollari (dato del 1999). E invece no: il settore nel 2030 varrà 41 miliardi di dollari, secondo quanto profetizzato dall’ultimo report di Goldman Sachs sul settore.
Che si voglia o meno guardare il bicchiere mezzo pieno, di vero c’è che il comparto si è rimesso in movimento, con un incremento del giro d’affari del 5,9% tra il 2016 e l’anno precedente secondo i dati Ifpi, la Federazione internazionale dell’industria discografica. Un trend in crescita, quindi che ha un vincitore: lo streaming, business relativamente giovane che, un passo per volta, ha spostato il cuore del sistema dalle vecchie case discografiche alle piattaforme online. Nuovi protagonisti che ci hanno messo poco a imparare a sedersi al tavolo per dare le carte: Spotify e Apple Music da un lato, Facebook e Alphabet dall’altro.
Non a caso l’evento più atteso dell’anno a Wall Street è la quotazione di Spotify. La società svedese fondata nel 2006 daDaniel Ek lo scorso dicembre ha depositato i documenti per la quotazione diretta (Dpo) e, entro la fine del primo trimestre, dovrebbe arrivare il debutto in Borsa. Dettaglio non di poco conto: con una Dpo non ci sarebbe alcun roadshow, non ci sarebbe l’emissione di nuovi titoli, nessuna banca di investimento coinvolta e non ci sarebbero underwriter né periodi di lock-up.
Tutto ciò permetterebbe a Spotify di quotarsi spendendo poco e i suoi investitori esistenti non si vedrebbero diluire la loro partecipazione. Sarebbe il primo grande gruppo a quotarsi attraverso questa modalità, finora scelta da piccole aziende attive soprattutto nel settore biotech. Il 21 dicembre scorso il Wall Street Journal scriveva che la Sec si preparava a dare il suo via libera. Non erano però seguite conferme di alcun tipo.
Spotify nel 2015 era valutata 8,5 miliardi, oggi si parla di un valore di almeno 20 miliardi di dollari. Una enormità, se consideriamo che il valore di tutta la musica incisa censito dall’ultimo rapporto Ifpi si aggira intorno ai 15,7 miliardi anche se poi al dato bisogna aggiungere il business del diritto d’autore legato al settore, pari a 9,16 miliardi di dollari. Comunque una valutazione niente male per la società con quartier generale a Stoccolma che conta 70 milioni di abbonati e 140 milioni di utenti in 61 Paesi, un fatturato da 3,3 miliardi di dollari, ma perdite nette per 600 milioni.
Che la «seconda vita» della musica sia a rischio bolla finanziaria? Prima di azzardare risposte affrettate, è meglio buttare lo sguardo sul segmento dello streaming: 4,6 miliardi di dollari i ricavi nel 2016 e performance da locomotiva in costante accelerazione (+36,2% nel 2014; +47,3% nel 2015 e +60,4% nel 2016). Fino a qualche anno fa la fruizione era essenzialmente gratuita. Adesso il pubblico è sempre più disposto a pagare: 112 milioni gli abbonati in tutto il mondo a piattaforme come Spotify, Apple Music, Tidal o a servizi più localizzati come Tencent in Cina.
Partendo da questi dati, Goldman Sachs ha previsto un 2030 di rinnovata forza per il music business con un giro d’affari globale da 41 miliardi e lo streaming a farla da padrone con un contributo da 34 miliardi di dollari, di cui 28 miliardi derivanti da formule di fruizione a pagamento (si calcola che tra 12 anni gli abbonati alle diverse piattaforme saranno 847 milioni) e 6 miliardi da ascolti con inserzioni pubblicitarie. Questo andamento di mercato farà balzare il valore di Universal Music Group e Sony Music, prima e seconda major del mercato, oggi non quotate ma controllate rispettivamente dalla media company francese Vivendi e dalla giapponese Sony Corp.
Goldman Sachs valuta Umg in 23,3 miliardi di dollari e la costola musicale della conglomerata Sony in 19,8 miliardi. La prima, infatti, in un 2030 dominato dallo streaming dovrebbe arrivare per esempio a fatturare più di 15 miliardi di dollari, ossia tre volte gli attuali ricavi della label che nel 2016 ha pubblicato Blue and Lonesome dei Rolling Stones.
Per Andrea Rosi, presidente di Sony Music Italia, «la bolla non c’è. Siamo in mezzo a un processo di transizione molto complesso: la musica da bene materiale che veniva venduto al pubblico e portava ricavi commerciali sta diventando sempre di più un servizio. A noi case discografiche interessa ovviamente soprattutto il segmento premium che valorizza di più il prodotto, rispetto allo streaming gratuito, pagato dalle inserzioni pubblicitarie. Nessun dubbio – sottolinea Rosi – sul fatto che le opportunità, in questa fase, superino i rischi».
Di certo le major discografiche stanno più o meno tutte provando a interpretare il cambiamento piuttosto che subirlo, come accadde quando all’inizio degli anni Duemenila, in piena epoca del file sharing illegale, si concentrarono sulla battaglia legale contro Napster. Sia Universal sia Sony si sono per esempio accordate con Facebook per consentire ai propri utenti di riprodurre e condividere musica, attraverso le piattaforme del gruppo. Accordi la cui importanza per il settore la si percepisce anche solo a guardare l’“offerta” del colosso di Menlo Park. Oltre alla monetizzazione di video, simile a Youtube, si aprono prospettive interessanti riguardo a Instagram e all’area di intelligenza artificiale che ruota intorno a Oculus, senza dimenticare l’integrazione della musica con Messenger. «C’è fame di contenuti – spiega Claudio Buja, presidente di Universal Music Publishing – lo comprendi dalla risposta di pubblico, ma anche dagli investimenti che le piattaforme online stanno facendo».
L’attivismo delle tech company in questa fase è degno di nota. Il gruppo Alphabet si è accordato con Universal, Sony e Warner per il lancio del servizio streaming a pagamento Youtube Remix. Se Amazon ha lanciato Music Unlimited, scommettendo sullo streaming dei contenuti musicali, Apple, prima tra tutti a credere nella riproduzione online a pagamento con la piattaforma Apple Music da 30 milioni di abbonati, con un’operazione stimata intorno ai 400 milioni si è invece comprata Shazam, l’app che riconosce le canzoni. «L’attivismo è fuori discussione – secondo Buja – ma il tema è sempre di più la valorizzazione dei contenuti».
Vedi alla voce value gap, quella non troppo equa distribuzione dei ricavi da musica tra piattaforme di streaming e aventi diritto. Il value gap, secondo Enzo Mazza, presidente di Fimi, l’associazione confindustriale delle major discografiche, «oggi riguarda Youtube e in prospettiva potrebbe riguardare anche Facebook. La particolare collocazione giuridica delle piattaforme basate sui contenuti caricati dagli utenti ha permesso alle tech company di versare agli aventi diritto pochi spiccioli rispetto a servizi come Spotify. Di fatto YouTube paga meno di un dollaro ogni mille stream, laddove Spotify ne versa sette. L’auspicio è che l’Unione europea voti la nuova direttiva sul copyright con impegni più stringenti per le piattaforme e conseguente crescita dei ricavi per major e artisti». Se succederà, i 41 miliardi di ricavi per il 2030 profetizzati da Goldman Sachs potrebbero essere qualcosa di più di un auspicio.