La Stampa, 17 gennaio 2018
Macron teme grane a Roma . Una vittoria populista complica i suoi piani europei
Sarebbe così bello mantenere lo status quo: un’Italia che non dà problemi a livello europeo, che non prende troppe iniziative. Con un premier come Paolo Gentiloni, dalla gestione efficace e che ha perfino accettato di inviare soldati italiani (siamo gli unici per il momento) dietro a quelli francesi, in azione con le truppe di cinque Paesi del Sahel. Di questo avrebbe bisogno Emmanuel Macron: lui che deve occuparsi del tandem franco-tedesco (prioritario). E degli esiti della Brexit, desideroso che il Regno Unito sia coinvolto in quel progetto militare europeo che ha in testa. Ecco, in quest’ottica Roma dovrebbe disturbare il meno possibile.
Il problema è che in marzo in Italia ci saranno le elezioni e nessuno ha capito bene come le cose andranno a finire: Macron meno che mai, lui che non è un gran conoscitore dell’Italia. Qualcuno dei suoi collaboratori deve aver letto in una traduzione di articoli di giornali italiani che addirittura Silvio Berlusconi ha parlato bene di Gentiloni. E così Macron, a Roma lo scorso 11 gennaio, ha espresso «la felicità a lavorare con il premier negli ultimi mesi», precisando che «l’Europa è fortunata a poter contare su di lui». Sì, metti che Gentiloni possa restare in sella anche dopo le politiche, qualsiasi siano i risultati. Insomma, metti che si possa contare ancora su un premier affidabile e silenzioso.
Ma sarà molto difficile e ormai anche Emmanuel se ne rende conto. Fonti vicine all’Eliseo indicano che sia sempre più preoccupato: dell’eventuale trionfo di una forma qualunque di populismo o, in ogni caso, della futura ingovernabilità del Paese. Il presidente francese non sa bene a chi appellarsi. A lungo si è detto che il suo referente in Italia fosse Matteo Renzi. «L’ex premier italiano ha forse il suo stesso talento nella comunicazione, ma la profondità e la gravitas non sono gli stessi di Macron», sottolinea Dominique Moisi, esperto di geopolitica. Matteo ed Emmanuel si sono incontrati brevemente a Parigi in novembre. Ed Emmanuel avrebbe chiamato Matteo per augurargli buon compleanno l’11 gennaio, quando era a Roma, ma senza vederlo. «A Macron manca la fibra italiana che hanno avuto altri leader francesi prima di lui», precisa Moisi.
La gauche parigina, da François Mitterrand in poi, ha sempre avuto relazioni privilegiate con la sinistra nostrana. Manuel Valls, che parla italiano (la madre è svizzera italiana), è vicino a diversi esponenti del Pd. Nella destra francese, François Fillon era famoso per passare le sue vacanze a casa di ricchi imprenditori italiani. E l’attuale premier francese, Edouard Philippe, che viene dai Repubblicani, poi convertito al macronismo, leggeva l’lnferno di Dante a 5 anni, su imposizione del padre, professore di francese. E ha trascinato la famiglia più estati sotto il sole truce della Sicilia a visitare siti archeologici.
I referenti italiani (o francesi con un legame forte con l’Italia) di Macron appartengono più al mondo dell’economia. Come Bernard Spitz, presidente della potente Federazione francese degli assicuratori, uno dei fondatori dei Gracchi, think-thank parigino in odore di social-liberismo. Si vuole rassicurante: «L’Italia ha un’importanza chiave per Macron. Al di là di un tandem franco-tedesco, ne esiste anche uno franco-italiano, fondamentale per ricostruire l’Europa di domani».
Tra gli altri personaggi che «spiegano» l’Italia al presidente francese ci sono Franco Bassanini (si incontrarono ai tempi della Commissione Attali, voluta da Nicolas Sarkozy e di cui un giovane e ambizioso Macron era uno degli animatori). E poi il banchiere Lorenzo Bini Smaghi, oggi presidente del Cda della Société Générale, e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Devono oggi rassicurare Macron. Che teme l’Italia nel suo solito ruolo d’imprevedibile guastafeste.