Avvenire, 17 gennaio 2018
Catalogna, si riunisce il Parlament fantasma. Tre eletti in carcere e cinque all’estero
Oggi si riunisce per la prima volta il Parlament catalano eletto il 21 dicembre, in un clima di incertezza e di tensione. Persino la composizione dell’Assemblea è in discussione, perché tre eletti sono in carcere e cinque, compreso l’ex presidente Carles Puigdemont, sono all’estero. La norma che permette di delegare il voto, secondo lo statuto, si applica solo in caso di malattia, quindi se la presidenza dell’Assemblea accetterà queste deleghe rischia di essere immediatamente denunciata, in applicazione dell’articolo 155 che resta in vigore fino a quando non si sarà insediato un nuovo presidente della Generalitat. L’indipendentista Roger Torrent sarà, con molta probabilità, eletto come presidente del Parlament.
I secessionisti, che hanno la maggioranza dei seggi, devono trovare una tattica comune, il che è piuttosto difficile, sia per ragioni giuridiche, ricordate con fermezza dal premier spagnolo Mariano Rajoy, che per questioni politiche. Il PdeCat, che ha sostenuto che l’unica alternativa a Puigdemont è Puigdemont, chiede a Esquerra republicana e alla Cup di seguire le sue indicazioni, anche rischiando l’incriminazione. Ma mentre i dirigenti di Erc hanno affontato il carcere, Puigdemont lancia i suoi diktat da Bruxelles e pretende di essere eletto in video-conferenza. Già comporre una presidenza dell’Assemblea che accetti queste ipotesi non è semplice. La presidente uscente, Carme Forcadell, in libertà su cauzione, non intende accettare la carica, che risulta assai pericolosa.
Oltre alla questione politica e istituzionale, che separa la parte che intende mantenere la pressione sullo Stato spagnolo ma senza rivendicare l’indipendenza unilaterale da quella che vorrebbe agire come espressione della Repubblica catalana, ci sono altre ragioni di diffidenza reciproca. È stata pubblicata lunedì la ponderosa sentenza di condanna per una trama corruttiva messa in atto, dieci anni fa, dai dirigenti del partito di Puigdemont, che però sostengono che, avendo cambiato nome alla formazione politica, non debbono risponderne. L’opinione degli altri partiti, non solo di quelli unionisti, è assai diversa. La più insinuante è quella della sindaca di Barcellona, Ada Colau, di Podemos: sostiene che il partito Convergencia ha cercato di mettere un tappo alle accuse di corruzione gettandosi nell’indipendentismo.
Contemporaneamente, però, il suo gruppo affianca i secessionisti nella volontà di permettere a esuli e carcerati di delegare il voto e anche di eleggere Puigdemont in video-conferenza, perché è contrario all’applicazione dell’articolo 155 che sospende l’autonomia catalana. I partiti unionisti, anche per questo, faticano a trovare un accordo: se anche la sigla catalana di Podemos votasse un presidente unionista, viste le assenze dei carcerati e degli esuli indipendentisti, questo passerebbe, ma mettere insieme quattro partiti che sul piano nazionale si combattono, risulta sostanzialmente impossibile. D’altra parte, creare una maggioranza unionista fasulla, perché basata sulle “assenze obbligate”, sarebbe una soluzione posticcia.
In sostanza tutti preferiscono lasciare il cerino in mano agli indipendentisti, che vantano una maggioranza parlamentare (anche se non di voti popolari) anche per far maturare o esplodere le contraddizioni che li dividono. A Puigdemont sarà impedito assumere la presidenza dall’estero, il che impone agli indipendentisti di compiere scelte alternative e complesse. Se non ci riusciranno, e molti pensano che finirà così, la stasi catalana continuerà e si arriverà a nuove elezioni a giugno.