Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 16 Martedì calendario

Chiudete Alitalia: è una frana

Nel 2008, a sostegno di un’Alitalia grande una volta e mezza quella attuale, come flotta e dipendenti, con un fatturato quasi doppio di quella attuale, il governo di allora concesse un prestito ponte di 300 milioni di euro. Nel 2017 si è attivato un meccanismo analogo, salvo per l’importo: 600 milioni poi cresciuti a 900. Più o meno negli stessi tempi, la Germania ha concesso un prestito ponte simile ad Air Berlin, vettore più grande di Alitalia, salvo per la cifra: 150 milioni, un sesto dell’importo anticipato dai contribuenti italiani, ma per un’operazione che si è chiusa nel giro di pochi mesi con l’acquisto da parte di Lufthansa per 210 milioni, cosa che ha permesso di restituire il debito allo Stato. 
È assai difficile che il lieto fine possa ripetersi nella società italiana. Del resto, alcuni numeri servono a dimostrare che il prestito ponte concesso dal governo Gentiloni ha raggiunto una cifra “assurda” come ha sostenuto Ugo Arrigo. «Basti dire afferma il docente della Bicocca che nel 2008 i “capitani coraggiosi” pagarono per l’acquisto di Alitalia 1.052 milioni di euro, di cui tuttavia solo 427 per cassa (e a rate); invece nel 2014 Etihad assunse il controllo di Alitalia versando solo 388 milioni. In sostanza, i due successivi acquirenti privati di Alitalia hanno pagato in tutto 815 milioni per comprarsela due volte mentre il governo italiano ha speso 900 milioni in una volta sola e non per comprarla né rilanciarla bensì per venderla. A tale onere va aggiunta la cassa integrazione straordinaria per 1.600 dipendenti, con un costo annuo stimabile in ulteriori 80 milioni». Se ci basiamo sulle quotazioni di Borsa, invece, con 900 milioni si sarebbe potuto acquistare circa un quinto di Easyjet o di Air France-Klm, balzando così al primo posto tra gli azionisti davanti allo stato francese, oppure l’intera compagnia Norwegian, la prima low cost ad aver creduto nel lungo raggio. 
Nel frattempo il “buco” della compagnia è ancora cresciuto e si avvia a superare la strabiliante cifra di 10 miliardi. Il conto è presto fatto. Si parte dai 7,4 miliardi di oneri a carico del sistema pubblico calcolati dall’ufficio studi di Mediobanca, stima che comprende le iniezioni di capitale, del prestito ponte del 2008, delle obbligazioni emesse dal Mef, della cassa integrazione e della partecipazione per 75 milioni delle Poste Italiane in occasione dell’aumento del 2013. Se si volesse tener conto di quanto bruciato dagli azionisti privati (capitani coraggiosi e Ethihad) possiamo salire di altri 2,4 miliardi. A questa cifra andrebbero poi aggiunti le perdite più recenti: ad ottobre, come riferito alla Camera da Luigi Gubitosi, Alitalia aveva perduto altri 31,3 milioni, un risultato riferito alla stagione estiva, cioè il periodo in cui le compagnie guadagnano di più. 
Ma il dato non vale per la compagnia italiana che, sottolinea Arrigo esaminando i conti del 2016, «non è invece riuscita, a differenza dei concorrenti, a ridurre i costi del carburante, ingessati da contratti sfavorevoli, ma ha dovuto egualmente ridurre i prezzi a causa della concorrenza sul mercato, peggiorando di conseguenza il suo disavanzo». È in questa cornice che si è svolto ieri il summit tra il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, quello dei Trasporti Graziano Delrio e i commissari di Alitalia, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, servito a fare il punto sulla procedura di Amministrazione e sul processo di vendita ancora in alto mare visto che «le manifestazioni di interesse pervenute devono essere ulteriormente approfondite prima di poter procedere ad una negoziazione in esclusiva». Di qui, in assenza di meglio, una raccomandazione ai commissari degna di monsieur di Lapalisse: i ministri «hanno dato istruzione ai Commissari di procedere velocemente in presenza di un’offerta solida e credibile». Intanto, pur senza avanzare cifre, i ministri hanno tenuto a dire, non si sa su quale base, che la società nel primo trimestre presenterà ricavi in crescita e che il prestito dello Stato non è stato sostanzialmente intaccato» lasciando all’immaginazione la determinazione di quel “sostanzialmente” e senza precisare se si intende tener conto degli interessi. Tra tanta vaghezza appare sempre più probabile che il processo di vendita sia comunque destinato a non chiudersi prima delle elezioni. 
In ogni caso, non facciamoci illusioni: è probabile che i quattrini del prestito ponte siano destinati ad alimentare il grande falò della compagnia di bandiera.