il Giornale, 17 gennaio 2018
«La scultura si rapporta sempre con la realtà, la pittura è convenzione»
Amantissimo della pittura, in particolare di quella figurativa, l’arte povera non è la mia tazza di tè (o il mio bicchiere di lambrusco, per tradurre in emiliano l’anglosassone modo di dire). Ma insulterebbe la propria intelligenza, oltre che l’individualità dei singoli artisti, chi considerasse il gruppo teorizzato da Germano Celant come un monolite da respingere o approvare in blocco. Ogni classificazione è una forzatura e figuriamoci una classificazione del 1967. Cinquant’anni sono tantissimi, alcuni esponenti dell’arte povera sono morti fisicamente, altri sono morti artisticamente e uno solo mi appare molto vivo e molto vegeto, Giuseppe Penone.
Davvero il tempo è galantuomo. Se nel settembre del ’67 fossi entrato alla galleria La Bertesca, via Santi Giacomo e Filippo, Genova, avrei ondeggiato fra Boetti e Pascali, Kounellis e Paolini, ma oggi di dubbi non ne ho alcuno. Non c’è gara fra la grossa e grossolana mela di Pistoletto, dispiacere di chiunque fruisca la Stazione Centrale di Milano, e gli alberi sottili e intellettuali di Penone, scavati fino a ritrovare la forma originaria. Non servono studi particolari, bastano gli occhi per capire dove la linfa dell’arte scorre e dove, al contrario, non circola più e al suo posto prevalgono muffa e fuffa. Dunque sono andato a Torino a intervistare Penone.
Lei ha esordito nel fatidico ’68: rispetto a oggi, era più facile o più difficile fare arte? In quelle generazioni pre-internet e quasi pre-televisione c’era maggiore interesse verso le novità culturali?
«C’erano poche persone che si interessavano all’arte, però erano persone che capivano ciò che si stava facendo. Oggi per un giovane artista ci sono più possibilità, perché oggi ci sono tante gallerie, mentre allora in Italia non ce n’erano più di tre o quattro con cui dialogare, compresa quella di Sperone che è stato il mio primo gallerista. Ma credo che la difficoltà di fare una buona opera sia la stessa e che il numero di persone in grado di capirla non sia aumentato».
Foglie di pietra, in Largo Goldoni a Roma, è una sfida alla legge di gravità o una citazione dei massi erratici presenti sulle Alpi o la dimostrazione che la vita è più forte della morte oppure cosa?
«Avevo già fatto dei lavori sull’idea della crescita del vegetale, di contrapposizione tra energia della luce, grazie alla quale il vegetale cresce, e forza di gravità. Così, quando mi hanno chiesto un lavoro per Roma ho pensato a queste pietre messe sui rami. Ho anche pensato alla pietra presente storicamente a Roma e dunque, in dialogo con l’architettura, al marmo».
Le foglie sono di marmo di Carrara e gli alberi sono di bronzo, giusto?
«Sì. Sono partito da un modello reale, un vero albero di noce, e poi ho fatto una fusione in bronzo».
Bronzo e marmo sono materiali molto costosi. Dietro Foglie di pietra c’è il committente Fendi: se il committente manca lei come si regola?
«Per chi come me lavora da cinquant’anni il problema principale è realizzare un lavoro nuovo e interessante. Sono io a produrre il mio lavoro, parto dal principio che ci devo mettere del mio e che deve soddisfare me stesso prima di chiunque altro. È il mio modo di procedere. Una volta che il lavoro è prodotto, se un collezionista lo compra, bene, e se non lo compra nessuno, bene lo stesso».
Edenica condizione. Fortunatamente lei usa spesso il legno, molto più economico. Quali alberi preferisce?
«Di solito uso conifere, larici, abeti, cedri, perché hanno una forma molto regolare».
Tutto il suo lavoro dimostra che la scultura non è affatto una lingua morta, come ebbe a dire Arturo Martini. E invece della pittura che cosa pensa? È viva?
«Io penso di sì, anche se come artista sono nato al tempo della riflessione sulla realtà e con la scultura si realizza un rapporto con la realtà mentre la pittura si basa sulla convenzione».
Poveri i miei pittori...
«Nella pittura c’è la convenzione del quadro. Una sedia è un oggetto reale, mentre il disegno di una sedia è un oggetto culturale. Perciò in quegli anni la pittura aveva pochissimo spazio, mentre la scultura non ha mai smesso di suscitare interesse».
L’arte povera viene considerata un’avanguardia e una caratteristica delle avanguardie è la velocità. Però molte sue opere, essendo legate ai ritmi biologici, fanno pensare alla lentezza.
«Io non sarei tanto d’accordo sul definire l’arte povera un’avanguardia. L’avanguardia è il figlio che contesta il padre, mentre nell’arte povera non c’era il desiderio di contrapporsi. Non era uno scontro generazionale, o almeno io non l’ho mai letta così. L’arte povera non è partita dalla storia dell’arte, ha cercato valori diversi legati alle tradizioni popolari e alla realtà sociale. Le avanguardie storiche erano ribellioni borghesi, i membri provenivano da ambienti sociali elevati».
I membri dell’arte povera provenivano da famiglie povere?
«Alcuni sì, altri no, ma abbiamo tutti beneficiato di una maggiore accessibilità delle scuole d’arte che prima della guerra erano riservate ai figli delle famiglie agiate».
Lei da quale famiglia proviene?
«Da una famiglia di origini contadine, mio padre faceva il commerciante di prodotti agricoli. Ho studiato ragioneria a Mondovì, il paese di mia madre, e poi mi sono iscritto all’Accademia Albertina».
Chissà che scintille...
«No, io ho fatto scultura dove c’era Sandro Cherchi che aveva il grande pregio di non imporre nulla, lasciava una totale libertà».
Si può ancora parlare di arte contemporanea italiana, ossia di un’arte riconoscibilmente tale? O presupporre confini culturali non ha più senso per chi come lei lavora da Torino ad Abu Dhabi?
«Si può essere interessanti indipendentemente dalla propria origine culturale, ma rimangono caratteri specifici come quelli legati ai fattori geoclimatici: un artista nato e cresciuto in un paese che ha quattro stagioni, e un paesaggio che ogni trenta chilometri cambia completamente, avrà una mentalità diversa da un artista russo».
Giusto, la geografia è importante. E la politica?
«Noi artisti italiani arriviamo all’estero in ordine sparso, sbarchiamo come clandestini. All’inaugurazione del Louvre Abu Dhabi non ho visto una presenza italiana ufficiale, sono cose che fragilizzano il nostro sistema dell’arte».
E pensare che nel nuovo Louvre una delle opere nuove più importanti è italiana, ovvero sua. E la religione conta? Mauro Covacich ha scritto: «Penone è un mistico, un mago, un folle abbacinato dallo stesso amore per la natura che folgorò Giordano Bruno. Si chiama panteismo, Dio in ogni cosa».
«Non credo di condividere fino in fondo questo, anche se la scultura mette in evidenza la vitalità, l’energia del materiale. Non si può imporre alla materia un concetto che non le appartiene. Volendo, si può fare un lavoro per contraddizione...».
Per contraddizione?
«Ad esempio quando rendi leggero un materiale pesante. Però sono artifici. L’aderenza al materiale rende logica la forma. In fondo il panteismo è questo, lo stupore nel guardare la materia, la meraviglia del mondo».
Ponendo l’accento sul Bio, anziché su Dio, lei ha precorso i tempi, la sensibilità della nostra epoca.
«Già i miei primi lavori sono relativi ai boschi, alla natura. Poi li ho documentati e li ho portati in città: il luogo in cui si discute dell’arte non sono le montagne, sono le gallerie d’arte. Il mio amore per i boschi è un fatto di appartenenza, sono nato in un luogo dove la cultura era quella».
Garessio, provincia di Cuneo, Alpi piemontesi. Torna il ruolo decisivo della geografia.
«Sì. Ma riguardo l’ecologia ho delle riserve su come viene presentata. Se noi esistiamo o non esistiamo, per la natura cambia poco. L’ambientalismo è un egoismo di altra specie, non è amore per l’ambiente, è qualcosa di funzionale alla nostra sopravvivenza e va benissimo, sono d’accordo, ma io con la natura e con i suoi materiali ho un rapporto paritario. O almeno cerco di averlo».