la Repubblica, 17 gennaio 2018
Anche l’Italia coinvolta nel riarmo nucleare. Da noi settanta testate
Il piano del presidente Trump è una chiamata alle armi nucleari che coinvolge direttamente anche l’Italia. In più passaggi del documento elaborato dal Pentagono si sottolinea l’importanza del contributo Nato sul fronte della deterrenza atomica. C’è in particolare il riferimento agli «aerei a doppio ruolo degli alleati» che nel nostro Paese ha un significato chiarissimo: sono i cacciabombardieri dell’Aeronautica che in caso di conflitto possono ricevere gli ordigni atomici custoditi in Italia dagli americani.
Nella Penisola l’eredità della Guerra Fredda non è mai scomparsa. Ci sono almeno 70 bombe “tattiche”: non sono nate per l’apocalisse totale sulle città, quella sintetizzata con l’acronimo inglese M.A.D. (Pazzo) che stava per “Distruzione Mutua Assicurata”, ma servono per colpire obiettivi militari come comandi e colonne di mezzi. Lo stesso impiego che oggi la Casa Bianca vuole potenziare per tenere a bada la minaccia russa, cinese e nordcoreana.
Gli arsenali nucleari in Italia sono due. Uno si trova ad Aviano, nella base statunitense: una cinquantina di ordigni pronti per decollare con i caccia F-16 del 510th Fighter Squadron “Buzzards” (Poiane). Sono rapaci supersonici che hanno un emblema fin troppo esplicito: il simbolo dell’atomo che getta fulmini sul globo terrestre.
L’altro deposito è nel perimetro dell’aeroporto di Ghedi, a pochi chilometri da Brescia. Si tratta di una ventina di bombe, chiuse in una fortezza sotterranea e interamente nelle mani di un reparto americano ma destinate ai caccia Tornado del Sesto Stormo della nostra aviazione. Da sempre gli accordi che regolano l’uso di queste armi sono top secret. Nel 2005, quando la Guerra Fredda sembrava sepolta nei libri di storia, l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga disse che nell’eventualità di un attacco nucleare il nostro stormo avrebbe dovuto condurre una rappresaglia colpendo Praga e Budapest: la potenza di una sola testata sarebbe stata sufficiente a raderle al suolo. Gli esperti invece ritengono che la missione dei caccia bresciani fosse limitata a raid atomici su impianti militari in Ungheria e Cecoslovacchia, da cui l’Armata rossa avrebbe lanciato l’offensiva verso Sud.
Oggi le due nazioni fanno parte della Nato ma i piloti dell’Aeronautica continuano ad addestrarsi per queste operazioni. E la scorta di bombe sta venendo potenziata, anche per permetterne l’imbarco sui nuovi F-35, quelli italiani che sostituiranno i Tornado a Ghedi e quelli americani che prenderanno il posto degli F-16 ad Aviano. È un punto su cui insiste il piano del Pentagono, sottolineando l’importanza del binomio tra caccia “invisibili ai radar” e il modello innovativo di bombe tattiche. Trump chiede infatti «agli alleati Nato di impegnarsi nell’ammodernamento dei loro sistemi militari», ai quali gli Usa «metteranno a disposizione le armi atomiche schierate in Europa». E conclude: «Queste forze forniscono un legame politico e militare essenziale tra Stati Uniti ed Europa e sono la garanzia suprema per la sicurezza dell’Alleanza».
D’altronde l’epopea delle armi nucleari “tattiche” americane che oggi la Casa Bianca vuole rivitalizzare è sempre stata legata al nostro Paese. La Nato aveva il problema di fermare l’ondata di tank sovietici sulla soglia di Gorizia, il lato meridionale della Cortina di Ferro. Negli anni Sessanta vennero piazzate in Veneto le testate nucleari più piccole mai concepite. C’erano i razzi Davy Crockett, con una atomica che si poteva tenere in braccio e veniva sparata persino dalle jeep. A una distanza compresa tra due e quattro chilometri provocava un fungo di mezzo chilotone: pure chi l’usava era esposto alle radiazioni. Di uguale potenza gli zaini atomici, gli oggetti più simili alle “valigette dell’apocalisse” protagoniste di tanti film d’azione, che sarebbero serviti per minare i valichi del Brennero e delle Alpi Carniche.
L’intero campionario di micro- atomiche era presente nei bunker tra Verona e Vicenza: ogive da due e da dieci chilotoni per i missili antiaerei Nike, per i cannoni a lungo raggio e per i missili Honest John trasportati su normali camion. Poi dai primi anni Ottanta si preferirono i missili Lance su semoventi cingolati. Con il dissolvimento dell’Urss sono finiti tutti nei musei, simbolo di una stagione di terrore che si sperava dimenticata e che invece rischia di tornare attuale.