Corriere della Sera, 17 gennaio 2018
Rossini e lo «Stabat Mater». Alla «prima» si fermò la città
Quella sera di marzo del 1842 a Bologna non dormì nessuno. La città si fermò, niente carrozze, niente carretti per le strade intorno all’antica Università, già diventata sede dell’imponente Biblioteca dell’Archiginnasio. Vie e piazze invase dalla gente, tutti pigiati intorno al palazzo, illuminato a giorno con candelabri dorati e lampadari in ogni luogo, dai loggiati agli scaloni, fino all’Aula Magna dove da lì a poco si sarebbe tenuta la prima italiana dello «Stabat Mater» di Gioachino Rossini. Presente lui stesso, e Gaetano Donizetti a dirigere un imponente organico di orchestrali e coristi.
Tutti a titolo gratuito visto che il ricavato del concerto sarebbe andato, per volere del maestro pesarese, a beneficio dei musicisti poveri della città. «E nonostante il fresco di primavera, vennero spalancate le finestre così che la musica potesse arrivare a quante più persone possibile» ricorda Michele Mariotti che il 24 marzo dirigerà Coro e Orchestra del Comunale nello stesso brano e nella stessa sala, da allora ribattezzata dello «Stabat Mater», allargandone la ristretta platea in diretta streaming al Teatro Comunale. «Sarebbe bello che come allora la città si fermasse – suggerisce Mariotti -. La sala è al primo piano, le finestre non sono certo a prova di rumore e sotto c’è una strada trafficata e un bar sempre affollatissimo. Una pausa di qualche ora in omaggio a quella “prima” e in rispetto a tale musica sarebbe auspicabile».
Anche perché succede di rado. L’ultima volta, a far risuonare lo «Stabat Mater» lì dentro fu, 26 anni fa, Riccardo Chailly, sempre con gli organici del Comunale.
Ora tocca a Mariotti. «Ogni volta che lo si interpreta, lo “Stabat Mater” è un nuovo viaggio. È un brano al confine tra sacro e profano, con momenti di grandissima profondità e struggimento e altri molto sensuali. Una musica traboccante amore e disperazione. Nel”Quando corpus morietur” si avverte lo sgretolarsi della materia, un’angoscia senza conforto. Quasi una confessione. La rabbia di Rossini verso un Dio lontano, prepotente, a cui si rivolge senza timore, con amara ironia».
Un rapporto «paritario» che suscitò lo sdegno di compositori come Beethoven e Wagner che bollò lo «Stabat» come «il vituperio del sacro in musica». E Rossini ricambiò: «Wagner? Ha dei bei momenti ma dei terribili quarti d’ora». «Eppure, al di là della proverbiale ironia, Rossini nasconde un lucido malessere. Quando si rende conto di essere inadatto al nuovo modo di scrivere, dice basta. La sua ultima opera, il “Guglielmo Tell” è del 1829. Rossini ha 37 anni, è al culmine della carriera. Si ritira dopo aver vinto tutto».
È proprio la sfida dello «Stabat», lanciatagli da un alto prelato spagnolo, a farlo tornare alla musica, stavolta sacra. «Un percorso lungo e tormentato – assicura Piero Mioli, musicologo e saggista – iniziato nel 1832, interrotto per problemi di salute e di nervi, affidato ad altri, ripreso, completato solo nel 1841. Quasi dieci anni di tentativi, slanci, rinunce. Un periodo tormentato da mille mali, la famosa lombaggine, ma anche da problemi d’ordine personale, coniugale. La separazione dalla moglie Isabella Colbran, il nuovo amore per Olympe Pélissier... La musica sacra irrompe inattesa nella sua vita e per Rossini è il confronto con il lato oscuro della sua anima in pena, una personalità divaricata tra il vecchio e il nuovo».
Quella sera di marzo del 1842 Rossini era lì, volle assistere alla sua prima italiana. Ma nascosto, senza comparire al momento degli applausi fragorosi.
«Il suo carattere schivo sfuggiva la popolarità quasi idolatrica che lo accompagnava ovunque. Ma, curioso di tutto, non si trattenne alla fine di chiedere all’amico Donizetti, arrivato a Bologna con un giorno di ritardo per aver fatto sosta alla Scala, cosa avesse visto. “Una nuova opera, Nabucco, di un tale Verdi. Un giovanotto di gran talento – racconta ancora Mioli -. Vedrai, ci seppellirà tutti”».