Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 17 Mercoledì calendario

Io conosco la vera Bohème

Si pensa sempre agli artisti affermati per come appaiono oggi, nei loro «agi». Ma se si pensa che un regista inglese innamorato dell’Italia come Graham Vick, classe 1953, da ragazzo si dovette travestire da Babbo Natale per sbarcare il lunario, Puccini è a un palmo di mano. Così Vick (una sorta di «architetto» delle regie con un sapore innovativo, dove tutto deve essere chiaro e comprensibile), racconta di sé e della «sua» Bohème, proiettata tra i giovani di oggi, che venerdì apre il Comunale di Bologna.
Lei è stato un bohémi en ? 
«Vengo da una famiglia di operai, sono stato studente, ma non per tanto, a Manchester lasciai l’università dopo due anni. Ero impaziente, studiavo musica, volevo diventare direttore d’orchestra. In quei due anni fui sedotto dal lavoro di regia, mi sentivo a mio agio».
I suoi inizi furono come quelli dell’opera di Puccini?
«Ho vissuto in una piccola stanza, da solo e senza soldi. Ma a differenza di Rodolfo e dei suoi amici ho sempre pagato i miei debiti. Quei quattro possono fare una telefonata a papà, non sono veri poveri. I poveri hanno più orgoglio». 
Vuol dire che sono dei fannulloni?
«Sono dei finti poveri e non vogliono lavorare. Giocano, evitando la vita, a Londra c’è un modo di dire: hanno preso un gap year». 
L’anno sabbatico...
«Sì. Io invece da ragazzo ho dovuto pagare per il mio orgoglio e per essere indipendente e onesto. Ho fatto il cameriere, lavoravo sul palco dei teatri, d’estate in fabbrica, e nelle quattro settimane di dicembre mi travestivo da Babbo Natale nei grandi magazzini». 
Lei dice che, seppure nella tragedia, in La bohème c’è una vena comica. 
«Più che comica, autoironica. Il libretto di Giacosa e Illica, con la supervisione di Puccini, è una presa in giro del linguaggio aulico degli altri libretti ma anche di tanta letteratura che si prende così sul serio. Penso alle doppie consonanti, alle parole strane».
Che tipo di teatro musicale è La bohème?
«É un teatro per attori, non per arte scenografica, ruota sul parlato, è una prosa musicale. Non c’è simbolo e astrazione: c’è vita e morte».
Ma la soffitta e il resto…
«C’è tutto quello che ci si aspetta di vedere. A Bologna il Comunale sta al centro di una zona bohémien, è pieno di studenti di fronte al teatro, si può acquistare droga in piena luce, di giorno. Quest’opera ha qualcosa di Bologna come di ogni grande città. E le stazioni sono un po’ tutte uguali, così la Barriera d’Enfer del terzo atto può essere Bologna o Parigi, come indica Puccini. Il Caffè Momus è evocativo ed è pieno di gente, sono tutti fuori, all’esterno, com’è scritto».
Se dovesse riassumere con uno slogan il senso di una sto ria così universale… 
«C’era una volta la gioventù, e poi arriva la morte. Il dramma è lì. I primi due atti sono pieni di vita-vita, gli ultimi due sono sotto l’ombra della morte. Nell’arte di Puccini c’è il sogno e la realtà: il sogno è la chimera della vita, l’illusione della felicità; la realtà è la vita di adulti». 
Il direttore è Michele Mariotti.
«L’ho conosciuto al Festival di Pesaro, creato da suo padre. Aveva 11 anni. Ha occhi aperti di curiosità, crede che ogni dettaglio debba essere importante, ha ambizione per l’arte». 
Com’era considerato Puccini nell’Inghilterra degli Anni 60, la sua prima giovinezza?
«Male, non veniva preso sul serio, sulla falsariga di Ciaikovsky. Due figure che scrivevano melodie troppo popolari e dai sentimenti espliciti per i gusti inglesi. C’era solo il grande Verdi».
Questo è il suo quarto allestimento della Bohème. 
«Si richiama a quello di Atene. É la prima volta con una compagnia italiana per il pubblico italiano, lo considero un onore e un privilegio. Adoro Madame Butterfly, dove la crudeltà finisce nella bellezza. Tosca è impossibile, è un melodramma povero (a parte la musica). Lei la trovo un insulto alle donne, Scarpia è caricaturale, Cavaradossi non è un vero rivoluzionario».
In tanti la ricordano per il cubo del Macbeth con Riccardo Muti alla Scala. Ma come fu il suo arrivo in Italia?
«Un amico in Maremma creò un festival nel convento in cui abitava. La trasformammo in una comune, cucinavano insieme e via dicendo. Feci un adattamento di Calvino dalla Zaide di Mozart. Ho un lavoro stabile a Birmingham e vivo a Creta, aria, pace, mare. Lontano dall’opera».