Libero, 15 gennaio 2018
In Italia mancano i medici. Servono pediatri e chirurghi
I pediatri, merce sempre più rara, destinati a diventare introvabili nel giro di dieci anni; camici bianchi di medicina generale già incamminati verso la stessa sorte. Chirurghi, cardiologi o dermatologi: alla cura dimagrante non sfugge nessuno. È questa la preoccupante fotografia scattata di recente dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), che immortala e racconta un vicino futuro deserto dei medici: sono 75mila quelli in uscita da qui al 2026 all’interno del servizio sanitario nazionale. Sempre secondo le statistiche Fnomceo, 15mila medici usciranno dal sistema nei prossimi cinque anni, considerando un’età media di pensionamento di 67 anni. Ogni anno, a fronte di una uscita di circa tremila medici, si diplomano al corso di Medicina generale in media 900-950 aspiranti dottori ma le graduatorie non sono un serbatoio sufficiente, dato che dei 30mila medici apparentemente in attesa di occupazione stabile, oltre il 60% ha più di 50 anni. Insomma, in tanti se ne vanno in pensione ma poi non vengono rimpiazzati dai giovani colleghi. Solo il 40%, quindi circa 12mila medici, sono potenzialmente attivabili. Anche in area ospedaliera la situazione è critica: nei prossimi 10 anni usciranno da 50 a 56mila medici. Una emorragia a cui si aggiungono i 1.500 giovani medici laureati o specializzati che ogni anno si trasferiscono all’estero perché bloccati dall’imbuto formativo e sospesi in un limbo che non consente l’accesso al mondo del lavoro stabile. Eppure i pronto soccorso sono allo stremo. I tempi di attesa massimi non vengono rispettati per mancanza di personale. Gli ospedali lamentano la carenza di specialisti. Ma anche quest’anno circa diecimila giovani laureati in medicina verranno esclusi dalla formazione specialistica e non potranno lavorare. E più di un migliaio faranno le valigie e andranno a cercare un posto all’estero. Con uno spreco enorme di denaro, visto che per formare un medico spendiamo circa 150mila euro di soldi pubblici.
Se guardiamo alle singole discipline, vediamo altre differenze significative: per esempio, a guardare i medici di medicina generale, nei prossimi 10 anni il loro numero si ridurrà del 50% e addirittura in 20 anni a un terzo degli attuali. I pediatri nel loro complesso, tra 10 anni saranno il 15% in meno rispetto a ora. I chirurghi in 20 anni caleranno di un quarto; mentre i cardiologi sono quelli che diminuiranno un po’ meno.
Insomma, i tagli alla sanità pubblica, una coperta che appare sempre corta e che avanti così finirà in mano ai privati, portano all’eliminazione di forze lavoro e di posti letto, e tutto questo senza potenziare il territorio, senza programmare un piano capace di tutelare un sistema sanitario sostenibile e di qualità. E a farne le spese sono sempre i pazienti. Anche quelli più piccoli.
Nel 2016, per esempio, era a rischio l’assistenza non solo per i medici specialisti, ma anche per un milione e mezzo di bambini. Nei prossimi dieci anni, infatti, ci saranno 1.625 pediatri di libera scelta in meno. Il numero emerge da un incrocio di dati: quelli Enpam sui pediatri di libera scelta che andranno in pensione nei prossimi dieci anni e quello relativo ai nuovi contratti per la specializzazione, messi a disposizione nello stesso periodo. Secondo poi i dati Istat, oggi in Italia i bambini fino ai 14 anni sono circa 7,6 milioni e i pediatri in totale sono 13mila. A prospettare un progressivo depauperamento del personale medico nel nostro servizio sanitario, dovuto anche ad una “gobba pensionistica”, è anche l’associazione medici dirigenti (Anaao-Assomed), che di recente ha messo in guardia sul rischio di un decadimento della qualità generale dei servizi, legato appunto alla perdita di operatori esperti ed in possesso di elevate capacità professionali, amplificata dai ritardi del sistema di formazione post-laurea. I dati al 2016 registrano 354mila medici attivi sino all’età di 70 anni, di cui 102.204 a tempo indeterminato (operanti nella Asl, esclusi veterinari e odontoiatri); 7.750 a tempo determinato, 6.530 con contratti atipici. I medici universitari (statali e non) sono 8.537, mentre i medici specialisti ambulatoriali attivi (esclusi veterinari e odontotecnici) sono 8.469 unità impiegati nelle tre aree funzionali, cioè medica, chirurguica e dei servizi. I camici cosiddetti “cessati” (escludendo il passaggio ad altre amministrazioni, i licenziamenti e le cessazioni non specificate) erano 2.083 ma questo dato è fermo al 2014.
Ad ogni modo i medici dipendenti (universitari e specialisti ambulatoriali) nati tra il ’51 e il ’60, operanti nel servizio sanitario nazionale, nell’arco dei prossimi 10 anni costituiranno un numero di cessazioni stimabili in 4.720 unità, di cui 19.157 nel primo quinquennio (2016-2020). Il blocco del turnover, con la contrazione dell’ingresso dei medici più giovani nel sistema, sta determinando un progressivo incremento dell’età media della categoria. Oltre al personale medico ospedaliero dipendente, vanno considerate le uscite relative a quello medico universitario e specialista ambulatoriale convenzionato. Sempre secondo Anaao-Assomed, le uscite del personale medico universitario nel decennio sono stimabili in circa quattromila unità, quelle dei medici specialisti ambulatoriali in 4.200.
Quel che pare purtroppo certo è che un modello di assistenza, un tempo considerato un fiore all’occhiello del servizio sanitario nazionale, sta cambiando in peggio i suoi connotati, mentre l’affidabilità del meccanismo di programmazione e sostituzione sembra una nave destinata alla deriva.