la Repubblica, 16 gennaio 2018
L’amaca
Riecheggia spesso il celebre detto maoista “la rivoluzione non è un pranzo di gala”.
Significa che ci si deve rassegnare a pagare un prezzo, in termini di sopraffazione e rudezza, ai grandi mutamenti sociali.
Ma se sopraffazione e rudezza si manifestano in presenza di zero rivoluzioni, nel pieno di un neghittoso tran tran democratico, i conti non tornano.
Prendiamo la campagna elettorale italiana: ci si dà dell’incompetente, dell’indegno e del ladro ogni trenta secondi (e siamo solo agli inizi), eppure non risulta che il 5 di marzo sarà l’alba di una Nuova Era, o un bivio fatale tra civiltà e barbarie, così da giustificare i nervi scoperti, le accuse infamanti, lo spettacolo di branchi di adulti che si afferrano per il bavero mostrandosi i canini. Non che ci si aspettasse proprio il pranzo di gala, ma almeno quel minimo di buone maniere in uso nella più dimessa delle trattorie. Non lanciarsi i piatti addosso, usare le posate, non sputare nel piatto del vicino.
Probabilmente quasi ognuno dei contendenti è convinto di essere, lui sì, il portatore di una rivoluzione che giustifichi la sua animosità.
Bisogna spiegargli che non lo è. Appena uno urla con gli occhi fuori dalle orbite, bisogna comunicargli che non si sta battendo per la Nuova Umanità o per la liberazione dalla tirannia, ma al massimo per le aliquote Iva.