la Repubblica, 16 gennaio 2018
L’ira di Abu Mazen cancella Oslo e gli Usa come mediatori
BEIRUT Un Mahmud Abbas ( o Abu Mazen, secondo il suo nome de guerre) così furente non s’era mai visto. È come se il presidente dell’Autorità Palestinese avesse scelto la riunione del comitato direttivo dell’Olp per sfogare tutta la rabbia e la frustrazione accumulate in 13 anni al vertice di quello che avrebbe dovuto essere il germoglio del futuro Stato palestinese, e invece si rivela essere soltanto «un’Autorità senza autorità e un’Occupazione senza conseguenze». Oggi, ha proclamato «è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono morti, uccisi da Israele».
In realtà nel mirino del leader palestinese non c’era tanto Netanyahu ( che gli ha subito risposto ironicamente riconoscendogli di aver reso un servizio a Israele rivelando una ben nota «verità») quanto Donald Trump e il riconoscimento da parte del presidente americano di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, senza alcuna accenno alla rispettiva rivendicazione dei palestinesi verso Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato nazionale. Una mossa che agli occhi di Abu Mazen toglie agli Stati Uniti qualsiasi credibilità di mediatore. Davanti alla direzione convocata per discutere proprio della scelta americana, Abu Mazen ha fatto il viso dell’arme, pronunciando parole insolitamente durissime con tono spesso catastrofico e ricorrendo, altra novità rispetto al suo lessico abituale, a citazioni coraniche. Come quando ha detto che «il fedele non si fa mordere due volte dallo stesso animale».
Dunque, basta con la favola degli Stati Uniti nella parte dell’“honest broker”. La mediazione non c’è stata ( «quando mai Trump mi ha offerto di riprendere il negoziato?») e quello che era stato annunciato come il piano di pace che avrebbe dovuto condurre all’accordo del secolo tra israeliani e palestinesi «s’è rivelato lo schiaffo del secolo, ma noi questo schiaffo lo restituiremo». E non vale certo ad attenuare il dolore la proposta di stabilire la capitale del futuro stato palestinese ad Abu Dis, una borgata nei pressi di Gerusalemme sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, che Abu Mazen ha sdegnosamente respinto. Di conseguenza, i rapporti tra Ramallah e Washington sono congelati. Abu Mazen resta fermo nel suo rifiuto di incontrare il vicepresidente americano, Pence, in visita nei prossimi giorni in Israele. Tuttavia, il presidente palestinese, ha evitato di porre una pietra tombale sul negoziato, né ha dichiarato la fine della collaborazione tra servizi palestinesi e israeliani, frutto degli accordi di Oslo ( settembre 1993). Così come resta legato alla soluzione dei due Stati, come la più idonea per porre fine al conflitto in corso da 70 anni. Ma qui si rivela tutta la fragilità della sua strategia. Abu Mzen ritiene che sia sufficiente cambiare il mediatore per rilanciare il negoziato e non è un caso che Netanyahu si sia subito affrettato a dire che «non c’è nessun altro mediatore, a parte gli Stati Uniti».
Così è prevedibile che il vuoto negoziale, già evidente nel secondo mandato di Obama, continuerà. Con la regione sempre più in subbuglio e, come ha delineato l’analisi della situazione strategica per il 2018 dell’Esercito israeliano, con «i rischi di guerra» fatalmente destinati ad aumentare lungo due possibili scenari: come risposta ad una iniziativa militare israeliana simile a quelle intraprese in questi anni per bloccare l’armamento destinato ad Hezbollah, o la creazione di basi militari iraniane in Siria; o come conseguenza del divampare del “fronte palestinese”.