la Repubblica, 16 gennaio 2018
Buon compleanno Mickey Mouse, l’eroe invecchiato come la middle class
L’apparecchio acustico ben si nasconde in quei suoi orecchi grandi, inconfondibili. Gli occhi sempre vividi, sebbene incorniciati da un solco di rughe.
Eccolo qua: nonno Mickey Mouse, giunto in questo inizio di 2018 al suo novantesimo compleanno. Già, perché tanto è trascorso da quel gennaio del 1928 in cui tecnicamente si ultimava il montaggio de L’aereo impazzito, cortometraggio che segnò il debutto della star Disney più amata e longeva (anche se fu il terzo cortometraggio, Steamboat Willie, il primo ad andare nelle sale, nel novembre dello stesso anno). E dire che alla prima proiezione ufficiale l’accoglienza fu tutto fuorché trionfale: i distributori non si fecero incantare da quel topo scalmanato in veste di aviatore alla Charles Lindbergh, appaiato fino dal debutto alla sua girlfriend Minnie. Sarà forse perché Mickey Mouse nasceva come una specie di “piano b”, una carta di riserva disperatamente giocata da Walt Disney e da Ub Iwerks dopo che Universal gli aveva di fatto sottratto – asso della scuderia – il fortunato coniglietto Oswald.
Quando si dice che da ogni colpo occorre subito rialzarsi: i nemmeno trentenni Walt e Ub non si persero d’animo, e tentarono il tutto per tutto osando la versione cartoon di un fortuito topastro che Disney narrava d’aver addomesticato nel suo studio di Kansas City. Detto fatto: il neonato fu battezzato Mortimer Mouse, poi convertito in Mickey. Certo che oggi commuove osservarne i primi vagiti: il Mickey Mouse immortalato in quelle pellicole era uno scavezzacollo, un adolescente adrenalinico in preda a un uragano d’ormoni, un gaucho di provincia in perenne sete di brividi e di slanci. Era la giovinezza di questo novantenne, viene da pensare.
Se non fosse che la vita di Mickey Mouse è anche quella della borghesia occidentale che l’ha eletto a proprio mito. E infatti quel topo esagitato degli esordi mi pare il più brillante ritratto della frenesia degli anni ’20 prima della Grande Crisi: incurante di ogni limite, il nostro giovane divo incarna la baldoria di un ceto medio senza freni, illuso d’onnipotenza, ebbro di boati futuristi. Quel Mickey Mouse è in fondo un D’Annunzio cartoon, che cavalca struzzi e ronzini, pilota velivoli e battelli, si lancia in risse forsennate pur di sbaciucchiare la sua pupa fra i marmi del Vittoriale.
Poi la frenata, brusca, glaciale: il crack del 1929 si abbatte anche sul giovane Mickey come una frustata. E infatti – proprio all’indomani del crollo di Wall Street – ecco uscire nelle sale The Haunted house, in cui il nostro paladino si addentra tremante in una mefitica magione infestata da un sabba di scheletri agli ordini nientemeno che di Sua Maestà la Morte. Come dire, insomma, che la borghesia americana scopriva d’un tratto d’esser circondata da mostri inauditi, le cui fauci reclamavano sangue umano. E la storia di Mickey Mouse negli anni a venire conferma puntualmente la teoria, con un susseguirsi di cortometraggi in cui i peggiori cataclismi sembrano abbattersi nel microcosmo disneyano: incendi rovinosi minacciano i grattacieli e pesanti macigni si staccano dalle montagne (fra i titoli non mancano Gli orfani di Topolino e Topolino salta il pasto). Egli si proponeva quindi come un portavoce del dilaniato ceto medio degli anni Trenta, in un processo di identificazione che culmina nel capolavoro Il piccolo sarto coraggioso del 1938 (in gara alla Mostra del Cinema di Venezia): ispirato a una favola dei Grimm, il film anticipava lo scoppio del secondo conflitto mondiale, attraverso la metafora di un Mickey Mouse mandato per errore a battersi contro un gigante-tiranno che tiene sotto il giogo l’intera contea. Stava per iniziare il lungo tunnel della guerra, in cui l’unica salvezza per non demordere era chiudere gli occhi e immaginarsi altrove. Anche casa Disney recepì questo istinto di fuga, e ancora una volta ne incaricò in pieno il suo storico alfiere facendone il protagonista di Fantasia. E appena il mondo riaprì gli occhi, trovò di nuovo pronta un’ulteriore trasformazione del topo, pronto a farsi aedo e simulacro di ideali e riti del Dopoguerra. Sarà che da tempo l’eroe veniva disegnato in strisce quotidiane da quel Floyd Gottfredston che ne fece sempre più un detective borghese in lotta contro il crimine, certo, ma un crimine che minacciava più che altro portafogli e proprietà privata di una middle class in rampa di lancio verso il boom. Mickey Mouse è dunque adesso un guardiano del Bene collettivo, laddove esso coincide con la quieta serenità di un Occidente consumista, fiero dei propri status symbol come la villetta dotata di tv e barbecue. In un’America che autorizza il possesso di armi da fuoco, rappresenta l’ostinato bisogno di professarsi dalla parte giusta, proteggendo nel proprio benessere più che una fonte di agio: un sistema di valori.
Nato incendiario, Mickey si scopre a mezza età pompiere: un autentico ribaltamento, o forse uno di quei cambi di casacca tipici della vita di ciascuno, quando il bilancino del compromesso ti fa mutare visuali e connotati. Almeno così ci dice, oggi, davanti alla sua torta di compleanno, questo arzillo novantenne. Rimpianti? Nessuno.
Anzi, forse l’ombra di un solo dubbio: per decenni ha sgominato i fuorilegge di Topolinia, terrorizzata dal perdere i suoi due tesori, reddito e sicurezza. Ma era così giusto farne due baluardi?
Chissà. Intanto un tizio di nome Donald ci ha costruito sopra un trionfo elettorale. Ma questo non è un cartoon, e quel Donald non è Donald Duck.