la Repubblica, 16 gennaio 2018
Il sogno sempre vivo di uno Stato islamico
Il mondo ha dichiarato la sconfitta dell’autoproclamato califfato, passato dal controllare fette ampie e popolose dell’Iraq e della Siria a una piccola enclave nel deserto. Il tracollo dello Stato islamico è accompagnato da un acceso dibattito su quello che succederà ora: che fare dei combattenti in fuga? Chi prevarrà nelle contese interne al movimento jihadista?
Un aspetto quasi sempre ignorato in queste discussioni è l’impatto dello Stato islamico sul sogno musulmano di una qualche forma di patria, che è antecedente al califfato istituito dai miliziani dell’Isis. Il minimo che si possa dire è che questo fallito esperimento di governance islamica ha ridato slancio a quel sogno, sia nel mondo arabo, fra i giovani, i professionisti impoveriti e gli attivisti, sia in Europa, dove almeno due generazioni di musulmani, anche gli integrati di classe media oltre a quelli che vivono ai margini, si sentono sempre più alienati dalle società in cui sono nati.
La parola “califfato” ha fatto irruzione nel dibattito generale in Occidente nel 2014, quando Abu Bakr al-Baghdadi proclamò un territorio di Dio, ed esortò i musulmani di tutto il mondo («Accorrete, o musulmani, nel vostro Stato») ricordando loro che il concetto di nazione era irrilevante per l’islam, che «la Siria non era per i siriani» e che la terra apparteneva ad Allah. In Occidente, il suono antico e polveroso di quel termine, “califfato”, unito alla spropositata violenza dello Stato islamico, ha fatto apparire delirante quel proclama, un riflesso della visione apocalittica di al-Baghdadi.
Non lo era: anche in quel momento, era un’idea che esercitava un fascino maggiore di quanto molti, in Occidente, fossero disposti ad ammettere.
Oggi probabilmente quel fascino è ancora più forte. Il periodo che è intercorso ha visto il rafforzamento di un’identità musulmana collettiva globale ed esplicitamente politica, inducendo i giovani musulmani a vedersi come una comunità collettiva, che ha bisogno di una patria per dare soluzioni a una situazione difficile. In Europa questo è palpabile ovunque: il razzismo strutturale mantiene senza lavoro o spedisce in carcere i musulmani molto più degli altri, e i governi stigmatizzano sempre più spesso i segni esteriori dell’identità islamica, vietando il velo e sottoponendo cause musulmane come le attività di beneficenza per la Palestina e la Siria alla sorveglianza antiterrorismo. Per molti questa esclusione alimenta il sogno di un futuro Stato musulmano idealizzato, con un richiamo sia spirituale che concreto: un posto dove ci sia lavoro e opportunità, dove l’integrazione non debba passare necessariamente per una secolarizzazione. In tutto il Medio Oriente, i giovani musulmani appartengono a una generazione che vive in Paesi che hanno svuotato di significato il concetto stesso di cittadinanza. Non c’è lavoro, la maggioranza di loro non può permettersi di sposarsi prima dei quarant’anni, la polizia li terrorizza per estorcere tangenti, e quando provano a cercare di raddrizzare le cose militando in organizzazioni basate sull’islam, le forze di sicurezza li puniscono.
Non c’è da stupirsi che così tanti giovani si identifichino come cittadini dell’islam, invece che come cittadini del Paese di cui detengono il passaporto.
I fautori post-Stato islamico di una patria musulmana spaziano dagli attivisti incattiviti dal vicolo cieco in cui sono finite le rivolte della Primavera Araba al gruppo di nostalgici del califfato attivo su Twitter.
Il dibattito sul mondo dopo lo Stato islamico verte apparentemente su questioni di sicurezza, ma non tiene conto che ciò lo Stato islamico sosteneva di rappresentare – l’idea di un califfato – rimane ben radicato nella mente dei musulmani, anche se molte forze contribuiscono a occultare alla vista questi sentimenti. La maggioranza di coloro che desiderano uno Stato islamico non è composta da jihadisti o gente che propugna l’assassinio di civili. Ma queste opinioni sono bandite dalla sfera pubblica in gran parte del Medio Oriente arabo: sono idee inammissibili nella società civile o sui principali mezzi di informazione.
È molto più facile vedere in televisione un conservatore macchiettistico (come quel personaggio egiziano che recentemente ha definito lo stupro delle donne che indossano jeans attillati un dovere nazionale) che il brillante avvocato islamista di Tunisi. La domanda che catturava l’attenzione del pubblico occidentale, man mano che lo Stato islamico guadagnava terreno, era quanto islamico fosse. Forse sarebbe stato meglio chiedersi perché quello che sosteneva di rappresentare attirava così tante persone.
Mentre cerchiamo faticosamente di formulare domande migliori per il futuro, dovremmo ragionare sui motivi per cui l’idea di una patria musulmana spunta fuori come una necessità: un concetto antico che non ha mai avuto, a memoria d’uomo, radici così estese.
2018 The New York Times (Traduzione di Fabio Galimberti)