il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2018
Michel Martone, la nostalgia dello champagne
Sabato sera, prima di andare da Rosario Dawson per la sessione sadomaso del weekend, ho notato che in tivù c’era Michel Martone. Non lo vedevo da un po’. Era ospite di Otto e mezzo. Diceva che l’accesso gratuito all’Università, senza tasse da pagare come propongono i bolscevichi di Liberi e Uguali, non gli piace. E la cosa non stupiva, tenendo conto che ha sempre avuto un’idea vagamente aristocratica e settaria di cultura. Così sentenziò il 24 gennaio 2012: “È ora di dare ai nostri giovani messaggi chiari, tipo: se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato; se a 16 anni tu scegli di lavorare in apprendistato o di iscriverti ad un istituto tecnico professionale: bravo!”.
Michel Martone, con quel suo nome a metà tra un nobile decaduto e un Platini che non ce l’ha fatta, ha vissuto l’apice politico sotto il governo Monti, che fece più danni della grandine ma che in quei mesi lì andava santificato a prescindere perché Monti aveva il loden e la Fornero frignava. Il Fatto consigliava già allora di diffidare dal divinizzato “governo tecnico”, ma al tempo anche solo dubitare suonava sacrilego. Un tempo proprio come questo: non c’è gusto in Italia a essere intelligenti, come ben sapeva Roberto “Freak” Antoni. Martone è nato a Nizza nel 1974. Figlio di Antonio Martone, avvocato generale in Cassazione ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Michel si è laureato in Giurisprudenza. Professore Ordinario di Diritto del Lavoro, è stato viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali dal 29 novembre 2011 al 27 aprile 2013. A inizio 2012, sobillato da Antonio Padellaro che si diverte un mondo a far casino e se ti chiede di starci tu ci stai, mi capitò di scrivere un pezzo sapido su Martone. Lo descrissi ironicamente come lo slave di Mistress Fornero, costretto a vessazioni indicibili e succube del potere illimitato di una che dopo i disastri che ha fatto andrebbe per sempre spedita (metaforicamente) al confino. Martone se la prese e, quando mi vide in tivù, me lo fece notare. Però garbatamente, come a dire: “Tu sei bravo, perché mi tratti così?”. Ammetto che già allora mi fece un po’ di tenerezza.
L’ho rivisto sabato. Ora porta capelli brizzolati e giacche marroni, che lo rendono una sorta di emulo giovane del Professore matto “Doc” Brown di Ritorno al futuro o, se preferite, dello scienziato sciroccato della serie tivù Fringe. L’ho guardato. L’ho ascoltato. E mi ha fatto ancor più tenerezza. Ho pure provato un po’ di nostalgia. Non della sua politica, che è quella del secchione privilegiato che pensa che chi non ha i soldi e cultura sia un mezzo coglione. E neanche per certe criticità che lo riguardano, dalle supposte agevolazioni nella carriera universitaria al “caso Civit” sollevato da Repubblica sei anni fa. Ho provato nostalgia per la sua intelligenza e per il suo garbo: ora che la politica è ridotta non più a sangue e merda (diceva Rino Formica) ma solo alla seconda, un interlocutore simile avrebbe svettato. E invece, adesso, abbiamo quasi solo le Fusani e i Migliore con cui “confrontarsi”. C’è in giro una tale disaffezione all’attività neuronale, e all’onestà intellettuale, che vien quasi la perversione di rimpiangere chiunque. Così, oggi, voglio chiedere scusa a Martone: non condivido quasi nulla di quel che dice, ma sa quel che dice. E in quest’epoca di renzusconismo, cioè di nulla, per farsi notare positivamente basta avere un pensiero. Perdonami, Michel: la prossima volta che ci vediamo, ti offro una cena (Però, se ordini Champagne, il Krug lo paghi tu).