il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2018
Interesse di conflitto
Alla luce degli ultimi eventi, una grande riforma s’impone come per i primi giorni, anzi le prime ore della prossima legislatura: rendere i conflitti d’interessi non solo leciti e consigliati (lo sono già), ma proprio obbligatori per chiunque ricopra incarichi pubblici. Basta con le ipocrisie di chi denuncia quelli altrui e poi corre a fabbricarsene almeno uno in casa propria, con la scusa che gli altri ce l’hanno più grosso. Facciamo che chi non ha conflitti d’interessi non può entrare né restare in politica, ma nemmeno nella PA, nell’impresa, nella finanza, nell’editoria. E abroghiamo quella burletta della legge Frattini, che fu scritta da B. nel 2004 per santificare i suoi conflitti d’interessi, ma che – intitolandosi “Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi” – potrebbe spaventare i più timidi. Gli italiani non ci faranno nemmeno caso, anzi quando la grande riforma passerà si domanderanno: ma perché, non era già in vigore? Non è passato inosservato il fatto che l’unico conflitto d’interessi penalmente rilevante denunciato dall’Anticorruzione e perseguito dalla Procura di Roma sia la nomina (poi annullata) di Renato Marra, fratello dell’allora capo del Personale Raffaele, all’ufficio Turismo del Comune di Roma. Notizia incoraggiante: se gli unici due italiani imputati per conflitto d’interessi o per dichiarazioni successive sul tema sono Marra e Virginia Raggi, il problema è risolto.
Nessun conflitto d’interessi invece nei bombardamenti a tappeto scatenati dal ministro Calenda contro la Raggi, di cui il Pd vorrebbe che lui prendesse presto il posto. E neppure nel pappa-e-insider fra Renzi e De Benedetti sul decreto banche popolari. E nemmeno sulle interferenze della ministra Boschi per salvare la banca vicepresieduta da babbo Pier Luigi. E neppure sui traffici di Tiziano Renzi attorno a Consip e ad altri affari grazie al nome del figlio premier. E neanche nelle parole di Giorgio Gori, sindaco renziano di Bergamo candidato a governatore di Lombardia che, dopo il no di Liberi e Uguali, va a caccia di voti di sinistra elogiando B. e Dell’Utri e si può capirlo, visti gli stipendi che gli pagavano da direttore di Rete4, Italia1 e Canale5, per poi continuare a contribuire al suo sostentamento quando fondò la casa di produzione Magnolia. “Se – dice Gori, scevro da qualsivoglia conflitto d’interessi – le condizioni di salute di Dell’Utri sono quelle di cui leggiamo, non è giusto che resti in carcere”: meglio “forme di detenzione più leggere”, anche perché Marcello “è sempre stato un uomo di grande qualità” (lo dicevano anche Mangano, Bontate e Riina).
E “una persona molto colta” (soprattutto sul fatto) che lui, perspicace com’è, non ha “mai avuto la sensazione fosse l’anello di congiunzione tra Berlusconi e la mafia”. Sensazione purtroppo confermata da una sentenza definitiva della Cassazione. Quanto al pregiudicato pluriprescritto B., il candidato del presunto centrosinistra dice di “apprezzare molto l’imprenditore per quel che ha fatto” (tipo lo scippo Mondadori, i falsi in bilancio, le frodi fiscali, le tangenti a giudici, politici, finanzieri e testimoni, cose così), e di essergli “molto riconoscente” (ci mancherebbe), distinguendo però “il piano imprenditoriale da quello politico”, mentre quello criminale sfugge proprio ai suoi radar.
Tutto normale anche quel che è accaduto domenica, quando B. ha lungamente intervistato Barbara D’Urso (o il contrario, non si capiva bene) sulla sua Canale5, con un bel selfie finale agevolato da trasfiguranti luci antirughe che conferivano alla coppia un inedito colorito fra il rosa shocking e la radiografia. Il fatto che un leader politico sia giudicato dai suoi dipendenti, ai quali versa lauti stipendi alla fine di ogni mese, è talmente abituale da essere considerato normale. Infatti il Pd – reduce dalla denuncia all’Agcom contro Orietta Berti per violazione della par condicio (aveva osato dire a RadioRai che le piace Di Maio e voterà M5S, rispondendo a una domanda) – non ha obiettato nulla sull’amico Silvio. Anche perché, se avesse osato, si sarebbe sentito rispondere: ma fatevi i conflitti vostri. La sera stessa anche La7, l’unica tv generalista immune da controlli partitici, si è adeguata. Il nostro idolo Giovanni Minoli – segnala Dagospia – lanciava così un servizio di puro giornalismo investigativo: “Adesso, con Alessandra Cravetto, continuiamo il viaggio tra le donne top manager d’Italia. Alessandra è andata a incontrare la presidente della Lux, la società di produzione che da circa 25 anni sforna in continuazione successi d’ascolti per la televisione. Lei è Matilde Bernabei”. Massì, la figlia di Ettore Bernabei, incidentalmente moglie di Minoli, presidente di Lux Vide e madre di Matilde Minoli che lavora anch’essa in Lux, sotto lo sguardo vigile dell’ad Luca Bernabei, fratello di Matilde e cognato di Minoli. Vergin di servo encomio, ma soprattutto di codardo oltraggio, per 10 minuti l’intrepida inviata strapazzava la consorte del capo, chiamandola Bernabei e mai Minoli, mettendola all’angolo con strali velenosi sulla “santissima produzione” di Don Matteo e degli sceneggiati sulla Bibbia e poi al tappeto con domande urticanti tipo: “Si può dire che L’isola di Pietro è stato un trionfo?”, al che la povera vittima con un fil di voce esalava: “Sì, si può dire”.
Poi naturalmente tutti a spellarsi le mani per il film The Post di Spielberg sul leggendario scoop del Washington Post che sfidò Nixon pubblicando i segretissimi Pentagon Papers e sputtanando Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson sul Vietnam, grazie al coraggio dell’editrice Kay Graham (Meryl Streep) e del direttore Ben Bradley (Tom Hanks). Averne, di giornalisti così. Però in America, a debita distanza.