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 2018  gennaio 16 Martedì calendario

Libia, un altro duro colpo al sogno della riunificazione

Immaginare le prime elezioni presidenziali di sempre in un Paese come la Libia, dove l’aeroporto internazionale è preso d’assalto, e chiuso, per scontri tra milizie rivali, richiede una certa dose di ottimismo. Se poi si considera che questo martoriato “Stato” è spaccato in due, sommerso dalle armi, e in diverse aree in mano a centinaia di milizie e gruppi criminali, lo scenario è poco rassicurante.
L’episodio di ieri è preoccupante. L’aeroporto di Mitiga è stato per un giorno intero teatro di battaglia tra due milizie che si sono fronteggiate con armi pesanti (20 i morti oltre 60 i feriti). Certo. Si può anche etichettare la milizia di Zamrina un manipolo di criminali che ha cercato di liberare i prigionieri, tra cui pericolosi estremisti, nel carcere che si trova nel compound dell’aeroporto. Questa è la versione delle Forze speciali di dissuasione, che da due anni difendono lo scalo e sono fedeli al governo di Accordo nazionale (Gna) guidato dal premier Fayyez al-Serraj. Ma proprio Serraj, l’uomo a cui a inizio 2016, la Comunità internazionale ha affidato la speranza di unificare la Libia si sta rivelando un leader troppo fragile per un Paese così turbolento. La sua autorevolezza è compromessa in molte regioni del Paese. Ironizzando i suoi avversari lo definiscono il “sindaco di Tripoli”.
La Libia continua ad essere spaccata. Nella regione orientale della Cirenaica comanda il potente generale Khalifa Haftar, nemico di Serraj, che controlla anche i maggiori terminal petroliferi e dispone di un esercito personale. Sostenuto da Egitto, Emirati Arabi, Arabia e in parte anche dalla Russia. Tra i due contendenti sta tornando a farsi sentire il “terzo incomodo”: Khalifa al-Ghawil, il premier dell’ex governo islamista di Tripoli, con una dote di milizie armate e il sostegno di Turchia e Qatar.
Haftar ambisce a divenire il prossimo presidente della Libia. In dicembre, in occasione della scadenza dell’accordo politico di Skhirat, ha sconfessato la legittimità del Governo di accordo nazionale, sostenuto dall’Onu. Quando venne annunciato, il 17 dicembre del 2015, il Libyan Political Agreement (Lna) fu salutato come un grande successo. Più dalla Comunità internazionale, desiderosa di porre fine a una pericolosa instabilità, che dai libici stessi. Già allora nella compagine incaricata di gestire la transizione del Paese, composta dalla diverse anime della Libia, erano stati esclusi personaggi politici di peso. Primo fra tutti Haftar. Tra i principali obiettivi dell’Lna rientravano una serie di modifiche alla Costituzione il cui fine era arrivare, dopo due anni, alla creazione di un Governo eletto dal popolo libico. Per ottenere questo risultato era stato nominato il Consiglio presidenziale della Libia, un organismo composto da 9 membri che avrebbe dovuto formare il Governo di Accordo nazionale. Nulla, o quasi, è stato fatto. Organizzare nel 2018 elezioni in questo contesto, come Serraj si è impegnato a fare, è una scommessa. Chi può garantire che Haftar non le boicotti, o che la situazione non degeneri?
La via del dialogo appare, ancora una volta, la più sensata. Quella perseguita con forza dal Governo italiano. La lunga telefonata di ieri del premier Paolo Gentiloni al presidente russo Vladimir Putin ha affrontato proprio questo aspetto. La convergenza che c’è stata sull’evoluzione della crisi libica, e sul comune impegno a contribuire a una soluzione politica, è un segnale positivo.
Tuttavia prima di mettere insieme le diverse anime della Libia la Comunità internazionale dovrebbe mettere d’accordo i Paesi stranieri che perseguono i propri interessi appoggiando, in alcuni casi anche militarmente, i due schieramenti. Se la Libia non riesce a uscire da questo pantano la responsabilità non è solo dei libici.