l’Espresso, 14 gennaio 2018
Messi connection. Una fondazione per aiutare i bambini. Ma gran parte delle donazioni resta a disposizione del campione argentino. Che rischia di chiudere la carriera in cella
Lo chiamano Pulga, pulce in spagnolo, per via del fisico non proprio corpulento. Oppure el Mesias, il Messia, cioè un calciatore che fa miracoli con la palla al piede. Finora però nessuno ha mai osato coniare un soprannome che accosti Leo Messi all’evasione fiscale. Presto potrebbe succedere, perché il fuoriclasse argentino del Barcellona è finito di nuovo nei guai per una questione di tasse. Guai grossi: milioni di euro versati dalla squadra catalana a un ente benefico intestato al campione.
La Fondazione Leo Messi, nata nel 2007, ha però impiegato solo una parte trascurabile dei suoi introiti per aiutare i poveri del mondo. Il resto è rimasto nella disponibilità della famiglia Messi oppure ha preso il volo verso i paradisi fiscali. Questo è quanto emerge dalle carte consultate da L’Espresso, che è in grado di raccontare nel dettaglio gli affari riservati del calciatore più pagato del mondo, una star del pallone che in base al contratto rinnovato nel novembre scorso guadagna 35 milioni di euro all’anno, al netto delle tasse. Poi ci sono diritti d’immagine e bonus vari, che portano la somma totale fino a circa 50 milioni. L’inchiesta giornalistica è stata realizzata grazie ai documenti ottenuti dal settimanale Der Spiegel e condivisi con il consorzio EIC (European Investigative Collaborations), di cui questo giornale è partner in esclusiva per l’Italia.
Da oltre un anno ormai la polizia tributaria spagnola sta indagando sui rapporti finanziari tra il Barcellona e la Fondazione Leo Messi. Le carte rivelano che tra il 2010 e il 2013, cioè il periodo su cui si è concentrata l’indagine, il club ha sborsato almeno 6,5 milioni di euro a favore dell’ente benefico gestito da Jorge Messi, il padre di Leo che da sempre amministra le finanze del calciatore. Questo denaro ha goduto di un doppio sconto fiscale. Il club calcistico ha potuto in parte dedurre i versamenti dai propri ricavi evitando così di pagare le tasse su queste somme. E anche la fondazione, in quanto ente senza scopo di lucro, ha sborsato imposte ridotte al minimo sui propri introiti. Secondo l’accusa, però, i pagamenti del club catalano non sarebbero altro che un compenso supplementare destinato a Messi. In altre parole, grazie allo schermo della Fondazione, il fuoriclasse argentino sarebbe riuscito a dribblare le tasse.
La nuova inchiesta rischia di avere conseguenze molto pesanti per Messi. Nel maggio dell’anno scorso il Tribunal supremo di Madrid, una sorta di corte d’Appello, ha confermato la condanna del calciatore a 21 mesi di carcere per un’evasione fiscale di 4,1 milioni di euro tra il 2007 e il 2009. Il cinque volte Pallone d’oro, vincitore di quattro edizioni della Champions League con il Barcellona, ha chiuso i conti con il Fisco pagando circa 30 milioni, che sono serviti a regolarizzare le imposte per i tre anni sotto inchiesta e per quelli successivi, oltre ovviamente alle multe del caso.
La pena detentiva è poi stata commutata in una sanzione pecuniaria di 455 mila euro. Spiccioli per uno come Messi, che guadagna quasi 150 mila euro al giorno. Le disavventure fiscali della star argentina corrono parallele a quelle del suo grande rivale Cristiano Ronaldo, il campione portoghese del Real Madrid che da una decina d’anni almeno gli contende il titolo di miglior calciatore del mondo. Entrambi, a quanto pare, hanno sviluppato una irresistibile attrazione verso i paradisi offshore, dove hanno nascosto una parte del tesoro accumulato in carriera. E così, mentre Messi ha chiuso (per il momento) i suoi conti con la giustizia con una condanna di pochi mesi fa, il fisco spagnolo ha appena chiesto il processo per Ronaldo, accusato di un’evasione da 14 milioni.
Per l’argentino, adesso, il problema è la recidiva. I giudici infatti hanno messo bene in chiaro che in caso di nuova condanna penale il fuoriclasse, che il prossimo 24 giugno compirà 31 anni, finirebbe per chiudere in carcere la sua trionfale carriera. È comprensibile, allora, lo stato di estrema agitazione in cui sono piombati i dirigenti del Barcellona quando, il 28 aprile del 2016, gli ispettori del Fisco spagnolo hanno bussato alla porta del club. Nelle settimane successive, una serie di riunioni tra i legali della società e consulenti esterni hanno esaminato le possibili vie d’uscita da questo nuovo contenzioso fiscale.
Messi è di gran lunga l’asset di maggior valore nel bilancio della società catalana e i vertici del club erano pronti a fare i salti mortali, sul fronte legale, pur di difendere il gioiello di famiglia. Secondo quanto emerge dai documenti esaminati dal consorzio giornalistico EIC, il Barcellona ha offerto al fuoriclasse il denaro necessario per mettersi in regola con il fisco. E, secondo fonti di Madrid, il calciatore sarebbe ormai vicino a un accordo che gli eviterebbe, pagando le tasse evase e le eventuali multe, di finire un’altra volta sotto processo. Nelle prossime settimane si capirà se la strategia difensiva studiata dalla squadra blaugrana avrà avuto successo. Di certo, fin d’ora si può dire che le carte riservate della Fondazione Leo Messi raccontano una storia che corre fin da principio sul filo dell’illegalità. Si scopre per esempio che l’ente amministrato da Messi padre, anche lui condannato nel 2017 a 15 mesi di reclusione per gli stessi reati fiscali del figlio, non è mai stato iscritto nell’apposito registro pubblico, come invece prescrive la legge. Di conseguenza, già a partire dal 2007, non sono stati depositati i bilanci annuali. Diventa quindi difficile stabilire se è stato rispettato un altro obbligo fissato dalle norme iberiche. I documenti esaminati dal consorzio giornalistico EIC rivelano infatti che la fondazione Messi ha versato in beneficenza solo una piccola parte dei finanziamenti ricevuti. A conti fatti, il totale delle donazioni risulta di molto inferiore alla soglia del 70 per cento sul totale delle entrate, ovvero il minimo stabilito per legge perché un ente che si dichiara benefico abbia accesso agli sconti sulle tasse.
Per anni, quindi, la famiglia del campione argentino ha gestito un tesoro sconosciuto al Fisco. Un tesoro milionario alimentato dai generosi versamenti del Barcellona, che ha continuato a pompare soldi nelle casse della fondazione: 1,55 milioni nel 2010, 1,65 milioni nel 2011, altrettanti nel 2012 e nel 2013. Cinque anni fa, per la prima volta, il Registro della Generalitat Catalana documenta l’avvenuta iscrizione dell’ente. Difficile non notare, a questo punto, una coincidenza temporale che non appare casuale. I Messi si sono messi in regola proprio nell’anno, il 2013, in cui il Fisco ha aperto la prima indagine sugli affari del calciatore, quella che nel 2016 si è conclusa con la condanna a 21 mesi, confermata in appello nel 2017. Quella inchiesta svelò l’esistenza di un network di società a Londra e in paradisi offshore (Uruguay e Belize) create per incassare al riparo da ogni imposta i proventi milionari dei diritti d’immagine garantiti a Messi da sponsor come Adidas.
Ebbene, seguendo le tracce del denaro si scopre che anche negli affari della Fondazione ricorrono nomi e circostanze che riportano agli stessi schermi fiscali svelati dall’indagine del 2013. Questa volta la storia parte da Rosario, la grande città argentina dove Leo Messi è nato e cresciuto prima di trasferirsi, a soli 13 anni, a Barcellona, dove il piccolo fenomeno è stato reclutato dalla scuola calcio della squadra catalana.
A Rosario, nel 2009, la famiglia del fuoriclasse ha creato una filiale della fondazione spagnola. Anche in questo caso, le informazioni disponibili, depositate nel registro pubblico, sono scarsissime. Niente bilanci, nessun resoconto dell’attività. Già nel recente passato la stampa spagnola aveva sollevato sospetti documentando, per esempio, spese per 550 mila euro giustificate come “rinnovo degli arredi” della fondazione con sede a Rosario.
La pista dei soldi conduce a Londra, dove ha sede la Hanns Enterprises, una minuscola società che risulta aver ricevuto almeno 300 mila dollari provenienti dalla filiale argentina della Fondazione Messi. Il pagamento è legato a un contratto di merchandising tra l’ente di Rosario e la Lamfur di Montevideo, in Uruguay. E così i soldi partiti dall’Argentina finiscono su un conto di Hanns Enterprises aperto in Lussemburgo presso la Andorran private bank, non proprio un istituto di prima grandezza. Sembra quantomeno insolito che un affare tra una fondazione argentina e una ditta dell’Uruguay venga regolato in Lussemburgo via Londra. Ma c’è un altro elemento sorprendente: Hanns Enterprises ha sede presso lo stesso ufficio della Sidefloor, un’altra società britannica che secondo quanto ricostruito dagli investigatori spagnoli aveva fatto da cassa occulta per il denaro nero della famiglia Messi.
Hanns Enterprises, così come Sidefloor, sono poco più che caselle postali, schermi finanziari gestiti dalla stessa fiduciaria, la londinese Jordan, che amministra migliaia di sigle di questo tipo. In mancanza di bilanci e resoconti dettagliati, resta comunque difficile ricostruire con precisione l’attività dell’ente con sede a Rosario. Almeno in un caso, però, un’iniziativa della Fondazione argentina ha avuto larga eco mediatica, quantomeno nel continente americano. Nell’estate del 2012 e poi anche l’anno successivo, il campione del Barcellona ha prestato il suo nome per una serie di partite di beneficenza tra star internazionali del pallone. Gli “Amici di Messi” contro il “Resto del Mondo”, questo il titolo del tour che nel giugno del 2012 ha toccato gli stadi di Cancun, in Messico, Bogotà in Colombia e Miami in Florida, mentre nel 2013 i match sono andati in scena a Medellín (Colombia), a Lima in Perù e a Chicago, mentre un’altra tappa statunitense, a Los Angeles, è stata annullata all’ultimo momento.
Precedute da una grancassa pubblicitaria tra tv e social network, le partite hanno richiamato negli stadi meno pubblico di quanto gli organizzatori avevano preventivato. In compenso l’iniziativa dei Messi & friends ha attirato su di sé una girandola di sospetti, sollevati già negli anni scorsi dalla stampa sudamericana e spagnola. Nel novembre 2013 lo stesso Messi è stato interrogato come testimone dagli agenti della speciale squadra antiriciclaggio della Guardia Civil di Madrid.
Gli investigatori da mesi lavoravano sotto copertura su una rete di narcotrafficanti con ramificazioni in Spagna e agli atti dell’indagine erano finite intercettazioni telefoniche in cui i sospetti riciclatori tiravano in ballo le partite organizzate dalla Fondazione Messi. A fine 2015, però, il giudice istruttore di Barcellona ha negato l’autorizzazione alla prosecuzione dell’inchiesta della Guardia Civil.
«Gli indizi raccolti sono insufficienti», questo in sintesi il verdetto che ha troncato l’indagine. Sono rimaste agli atti, però, numerose circostanze che proiettano una luce inquietante su quel tour di beneficenza targato Messi. Il rapporto di polizia segnala che le donazioni promesse si sono in parte arenate prima di arrivare a destinazione, oppure sono risultate di gran lunga inferiore a quanto promesso. Poi, anche in questo caso, il denaro partito dalle casse della fondazione Messi ha percorso itinerari tortuosi, a volte rimbalzando nei paradisi fiscali.
L’organizzazione del tour era stata affidata a Guillermo Marin, grande amico di Jorge Messi, il padre di Leo. Agli atti dell’inchiesta ci sono documenti contabili che provano pagamenti a favore di Marin da parte di una società, la Total conciertos, che aveva rilevato i diritti sulla partita di Bogotà nel 2012. I bonifici sono diretti a un conto bancario di Curaçao, nel paradiso fiscale delle Antille Olandesi. Un testimone ha poi dichiarato che i calciatori hanno ricevuto un compenso per giocare, circostanza smentita da Messi quando è stato interrogato dalla polizia. Nei match di beneficenza sono scesi in campo grandi nomi del calcio mondiale. Tra questi Robinho, Didier Drogba, Dani Alves, Javier Mascherano, così come alcuni campioni della nostra serie A: Ezequiel Lavezzi, Marek Hamsik, Fabio Cannavaro, Marco Materazzi e l’allenatore Fabio Capello.
«Nessun compenso ai calciatori», questa la versione ufficiale. Del resto fare beneficenza a pagamento non sembra una gran trovata d’immagine per gli sportivi milionari ingaggiati dalla Fondazione Messi. Il francese Drogba, contattato nei giorni scorsi dal consorzio giornalistico Eic, ha però dichiarato di aver girato il suo compenso a una propria fondazione benefica. Tre anni fa, invece, il settimanale tedesco Der Spiegel diede conto in un articolo delle offerte ricevute dall’attaccante del Bayern Monaco Robert Lewandoski per aggregarsi alla carovana dei Messi & friends. Offerte, fino a 180 mila euro, rimandate al mittente dal calciatore polacco. L’Espresso ha rivelato in un’inchiesta pubblicata nel dicembre 2016 che Capello è stato pagato 50 mila dollari per le sue apparizioni in panchina. «Compensi regolarmente fatturati e dichiarati al fisco», spiega il diretto interessato tramite un portavoce. I compensi per il famoso allenatore sono stati versati dalla Players Image con sede in Uruguay, che è un paradiso fiscale. La stessa Players Image è citata nelle indagini sull’evasione fiscale del fuoriclasse del Barcellona come una delle aziende che tra il 2006 e il 2009 aveva ricevuto denaro per la cessione dei diritti d’immagine a sponsor del calibro di Pepsi Cola e Telefonica. Insomma, tutto torna: da Messi a Messi. Con tappa offshore. E tanti saluti al fisco.