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 2018  gennaio 15 Lunedì calendario

Manatthan e pregiudizio. Te la do io New York

Le sei ore di fuso orario tra l’Italia e la costa orientale degli Stati Uniti sono un vantaggio sufficiente perché al risveglio lo smartphone poggiato sul comodino sia intasato di messaggi di amici e parenti che domandano se va tutto bene. Mi chiedo a cosa si riferiscano, poi apro un qualsiasi sito italiano di informazione e al massimo due tre colpi di scroll più in basso trovo il motivo di tanta apprensione: a New York sta nevicando copiosamente! Per quanto affascinante la vista di Manhattan imbiancata possa essere, a me desta molta più meraviglia l’idea che una nevicata a New York rappresenti la terza o quarta notizia per importanza della nostra cara Italia. Che non ci siano cose più urgenti che misurare i centimetri di neve caduti a Central park.
Se è vero che New York è la città dell’immaginazione, tanta trafelata attenzione sulle vicende della città più narrata del mondo si spiega abbastanza facilmente: anche tu che non ci sei mai stato, New York l’hai vista tante volte al cinema e sui libri che fai fatica a considerare la natura metereologica di una precipitazione nevosa che avviene a 7 mila km da te. Quella neve cade, morbidissima e magica, direttamente nei tuoi sogni. Non è mia intenzione rovinarti questo incanto, tuttavia vorrei metterti in guardia sulla distorsione che l’eccesso di immaginazione genera nel racconto di una città. A iniziare dal nome.
Uno dei messaggi che ricevo più spesso mi chiede: come va nella Grande Mela? Tardo un po’ a sovrapporre l’idea del grosso pomo alla città nella quale mi risveglio, perché per quanto anche io la conoscessi come tale prima di venirci a vivere, nei quattro anni trascorsi qui non ho mai sentito chiamarla così neanche una volta. Per chi ci abita, New York (in particolare Manhattan) è soltanto The City. New York è La Città perché contiene tutte le altre, non solo per la sua capacità di svelare angoli e prospettive familiari, per il suo continuo ricordarti qualcosa che hai già visto (ma mai così grande e magnifico), ma soprattutto perché qualunque cosa abbia a che fare con l’esperienza della vita in città è già passata da qui. Il più significativo dei disallineamenti del racconto da lontano è quello del Grande Sogno Americano, l’idea che a New York come nel resto degli Stati Uniti tutti abbiano un’occasione. Quando sarai qui a New York ti consiglio tra le prime cose di sederti in metropolitana e di guardare le sei persone sedute di fronte a te. Una ragazza creola che pare disegnata a china da Hugo Pratt manda note vocali su Whatsapp; una giovane donna con un ciuffo di capelli blu legge il Principe di Macchiavelli; un ebreo hassidico avvolto in una lunga giacca nera con due riccioli che dalle tempie gli cascano sulle guance chiude gli occhi; un’anziana signora truccatissima gioca una partita a Candy Crush a tutto volume; un uomo con un bomber degli Yankees solleva lentamente i lembi di una foglia di banano, rivelando la punta di un tamale che addenta con delizia; un corpulento signore nero legge a mezza voce la pagina di un Vangelo: non è possibile immaginare al mondo un modello di integrazione migliore delle linee di metropolitana newyorkesi, l’evidenza del mescolarsi, dello starsi accanto, dell’essere tutti declinazioni della sola razza possibile: quella umana. Il melting pot di cui hai sempre sentito parlare. Eppure val la pena indagare un po’ più a fondo l’affermazione che a New York ci sia posto per tutti.
Ancor prima dell’arrivo di Trump, è dal post 11 settembre che l’ingresso negli Stati Uniti è consentito per un transito massimo di 90 giorni, solo dopo aver specificato già in ingresso la data di uscita dal paese e, qualora sollecitati a farlo, aver dimostrato di avere denaro sufficiente per pagare il proprio soggiorno.
Se il poliziotto chiamato a timbrare il tuo passaporto ha il sospetto che tu stia entrando per cercare lavoro o per fermarti più a lungo, ti potrà chiedere di mostrargli il tuo computer, l’email e i messaggi sul telefono. Alla tua facoltà di non collaborare, lui risponderà con la sua facoltà di non farti entrare. La questione si complica se in America scegli dunque di restarci. La richiesta e la concessione di un visto lavorativo presuppongono l’esistenza di una job offer e di uno sponsor. L’America, cioè, ti tende una mano se hai qualcuno dentro che ti aspetta e garantisce per te, se porti denari, se prometti che pagherai le tasse adeguate al tuo profilo professionale. Per tutti gli altri c’è la via della clandestinità, dell’entrare negli Stati Uniti e non uscirne più finché non sposerai un americano acquisendone la cittadinanza, o la via delle identità fiscali fittizie che ti permettono di percepire uno stipendio e pagare le tasse a nome di un altro.
Ma non voglio buttarti giù. Ammettiamo che ormai tu sia entrato, abbia un visto e un lavoro: è il momento di trovare casa, stai per avere un appartamento a New York. Ecco che l’immaginario ti giocherà di nuovo brutti scherzi. Probabilmente ti verrà alla mente la penthouse con scalinata in marmo dell’Upper East Side del Signor Drummond, miliardario padre adottivo del piccolo Arnold. Ti dirai che magari non ti aspetti una sistemazione del genere, ma che certamente con il tuo discreto stipendio che in Italia racimoleresti non prima di cinque anni, non hai meno potere acquisitivo di un attore in bolletta, una cameriera, un professore alle prime armi, una massaggiatrice, una cuoca o un esperto di statistica.
Insomma, tu non vali certo meno di nessuno dei sei protagonisti del telefilm Friends e quindi ti aspetti di poter ambire a qualcosa di molto simile al loro spazioso appartamento con affaccio sul West Village. La sofferenza della ricerca te la risparmio: sappi solo che dopo aver penato a lungo, ti reputerai persino fortunato nel pagare duemila dollari al mese per un cascante appartamento di venti metri quadri al quinto piano senza ascensore di un malconcio isolato di Chinatown. Ti capiterà di sobbalzare ogni dieci minuti al passare della metropolitana le cui vibrazioni sul ponte di Manhattan riecheggiano sulle tue pareti come se il treno della linea N dovesse sbucare da un momento all’altro proprio al centro del tuo monolocale. Ti capiterà di fare una visita al Tenement Museum che a pochi isolati da casa tua ricostruisce le dimore delle vecchie e poverissime famiglie emigrate a New York alla fine dell’800 e di desiderare con feroce bramosia di avere anche tu un posto così accogliente e curato nei minimi dettagli (poi ti dirai che una two bedrooms nel Lower East Side costerebbe almeno 3.500 dollari, quindi abbandonerai il pensiero).
Ti capiterà di scacciare ragni, blatte e topolini, di frequentare le lavanderie a gettoni che hanno sempre solleticato il tuo immaginario e di smetterla di trovarle divertenti nel momento in cui metterai a fuoco l’evidenza di asciugare le tue mutande laddove un estraneo ha appena asciugato il suo tappeto (New York è quel posto in cui avere una lavatrice in casa vuol dire che ce l’hai fatta!, dice un geniale annuncio immobiliare). Proprio quando starai per gettare la spugna, tuttavia, ti basterà raggiungere uno qualsiasi dei punti panoramici di Brooklyn e da lì guardare lo skyline di Manhattan, per provare quel senso di meraviglia che solo le bellezze naturali sanno scatenare. Stavolta invece sarai attonito di fronte a un’opera fatta dagli uomini, un’opera fatta di uomini, di tante finestre illuminate tra cui da qualche parte c’è anche la tua.
Quelle luci accese ti faranno ricordare un altro soprannome: la città che non dorme mai. New York è un fiume di gente che ti travolge e che ti porta a misurare il livello di integrazione nella città attraverso la tua capacità di riuscire a tenere il passo della corrente. Tuttavia anche qui occorre guardar meglio, perché il vero movimento che differenzia The City da tutte le altre non è quel pulviscolare scorrere di storie e vite in tutte le direzioni a ogni ora del giorno e della notte. La più profonda e significativa energia di New York risiede nel moto “da luogo” che ogni abitante compie raggiungendola: il carico di sogni, ambizioni, speranze che lo portano a convergere e competere nel posto più bello e affollato del mondo. È questa la vibrazione: anche da fermo, ogni New Yorker esprime una rincorsa, quella che lo ha portato fin là.
E se pure è vero che il confluire di tanta energia individualista sia sfiancante, che il fatto di essere una città con più voci che orecchie generi continuamente delle aberrazioni; se pure è vero che questa ossessione di comprimere gli spazi ti si infila dentro al punto che quando leggi il tuo numero del New Yorker in metropolitana anche tu fai inconsapevolmente come tutti gli altri, piegando il giornale in tre, in modo da tenere a vista una colonna alla volta; se pure ti accorgi che vivi nella meno romantica delle città (scusami, questo è davvero l’ultimo colpo che infliggo al tuo immaginario), dove è molto più facile avere un amante occasionale che un amico, dove il sesso è confinato in tempi schedulati, scarnificato nel linguaggio di dialoghi cortissimi: My place or yours?, nello scorrere a destra o a sinistra di un pollice sullo schermo del telefono su cui valuti i candidati della tua prossima copula; se pure insomma ti accorgi che la New York in cui abiti nulla ha a che fare con quella succosa grande mela di cui ti avevano raccontato, c’è un fattore che da solo basta a farti desiderare di non andar più via.
Spesso si parla di mancanza di verticalità per descrivere l’incapacità degli Americani di affondare le radici dei propri discorsi, del modo di pensare, di abitare gli spazi, in una profondità culturale, in una memoria (c’è un detto per cui i libri di storia degli Americani iniziano dalla battaglia di Pearl Harbour). Questo è vero solo in una direzione. La verticalità degli Americani non sa rivolgersi al passato, ma va drittissima nel futuro. New York è una città che ti insegna che l’unico limite è nella tua volontà. Un posto dove, se ti fermi, è perché non vuoi andare oltre, mai perché non puoi. Un posto in cui il futuro è qualcosa che ti sorride e ti promette che domani quasi sicuramente andrà meglio di oggi. In Italia del futuro abbiamo paura e a questa paura ci siamo rassegnati. Per fortuna ogni tanto, benevola, una coltre di neve scende su Manhattan, così per un po’ abbiamo altro a cui pensare.