il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2018
Da capo di Daesh a fantasma: un taxi giallo chiamato Califfo
Nell’autunno 2017 Iraqi Media News Agency spara la notizia: Abu Bakr al Baghdadi, il Califfo, secondo una fonte è scappato da Rawa: “Dopo che le truppe irachene hanno invaso Qaim, Baghdadi era consapevole di rischiare la vita. Con un taxi giallo, si è diretto in Siria, a Deir ez-Zor”.
L’uomo da 25 milioni di dollari – questa la taglia messa dagli Stati Uniti – fondatore dello Stato Islamico ormai dissolto, fugge dall’ultimo fortino jihadista: eppure, quando Deir ez-Zor viene conquistata ai primi di novembre dai governativi del presidente Assad, di al Baghdadi non c’è traccia.
Oggi, per il presidente russo Putin la guerra in Siria è agli sgoccioli e gli estremisti islamici alle corde; Baghdad annuncia che sul suolo nazionale non restano bande armate legate a Daesh: eppure nessuno è in grado di dire che fine ha fatto il nemico pubblico numero uno di un bel pezzo di mondo. Il Califfo è stato aiutato a sparire? Mosca ripete da settimane che gli americani addestrano estremisti islamici in Siria per destabilizzare Damasco. Si torna dunque a dipingere un quadro fosco, nel quale l’Isis è strumento per spaccare a metà un’area di interesse e spazzare via gli sciiti alleati dell’Iran.
Che vi siano ancora amici del jihad in quell’area è certo: emblematica la storia di Abu Omar, detto “Barba bianca”: catturato dalle forze irachene meno di una settimana fa, accusato di alcune delle più feroci esecuzioni a Mosul, è tornato in libertà dietro il pagamento di una “cauzione”. Questo sostiene Nadia Murad, yazida, ex ostaggio degli estremisti islamici: “Trucidava i giovani a Mosul ed è stato rilasciato da alcuni ufficiali corrotti: chiediamo giustizia”. Abu Omar è stato identificato da diversi testimoni come uno dei sicari che lanciava nel vuoto, da alti palazzi, ragazzi accusati di essere omosessuali.
Chi non crede alle protezioni trasversali di Daesh propone un’altra storia: per prendere un personaggio come al Baghdadi, servono informatori e servizi segreti operativi dentro il territorio nemico. Ci hanno provato in molti, ci sono riusciti in pochi: i giordani avrebbero avuto uno dei loro fra i comandanti dell’Isis. I kosovari hanno desistito. Molti russi sono stati uccisi solo per il sospetto che fossero spie. Gli israeliani, se avevano infiltrati, se lo tengono per loro: l’ultima volta che sono riusciti a mandare a monte il piano dei jihadisti di costruire pc portatili-bomba da far esplodere sugli aerei internazionali, il presidente Trump lo ha raccontato a Mosca facendo infuriare il Mossad.
Dalle testimonianze raccolte attraverso i prigionieri, gli ufficiali della coalizione che hanno combattuto contro Daesh hanno avuto conferma del ruolo dell’Emni, il servizio di sicurezza del Califfato, su suoi stessi affiliati. Chi si arruolava subiva un terzo grado dall’Emni e veniva spedito in prima linea. Il ragionamento era tanto semplice quanto efficace: se l’aspirante jihadista moriva, diventava martire.
Se disertava, era una spia. Solo se si ricopriva di gloria uccidendo, violentando, facendo propaganda, allora diventava un soldato di fiducia. L’apparato dirigente dell’Isis era formato da ex ufficiali iracheni che si erano fatti le ossa sotto Saddam Hussein. Gente che di mestiere scovava agenti nemici, veri o presunti. L’Isis ha inoltre imparato dai fallimenti delle altre organizzazioni che hanno perso leader come Osama bin Laden e Abu Musab al-Zarqawi; dunque, per al Baghdadi niente abitudini, niente incontri con amici fidati, niente comunicazioni con i parenti, anche per ragioni mediche: unica concessione, forse, una rete di corrieri per messaggi verbali. Insomma, il ricercato più ricercato del pianeta – ammesso che sia vivo – ha una agenda fitta di cose da non fare.
In un articolo dedicato al Califfo alla macchia, The Daily Beast riporta le parole, nella sua conferenza stampa finale, del generale Stephen Townsend, responsabile della coalizione anti Isis in Siria e Iraq fino allo scorso agosto: “Al Baghdadi potrebbe trovarsi ovunque: se dovessi scegliere un posto, indicherei la valle dell’Eufrate”. E così si torna alla storia della fuga in taxi giallo: perché l’area indicata dal generale conta 250 chilometri fra Deir ez-Zor in Siria, e Rawa in Iraq. Però, non si tratta di mettere a ferro e fuoco una città ma di muoversi in una zona vasta e insidiosa con distese aperte. C’è un altro dato: in quella valle sono arrivati nello stesso tempo sia gli americani con i curdi, che i siriani con i russi. Erano tutti impegnati a non spararsi fra loro che a cercare il capo di Daesh. Per il generale la storia ha un finale solo: “Se lo troveremo, proveremo a ucciderlo subito. Non vale la pena catturare il Califfo vivo”.