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 2018  gennaio 14 Domenica calendario

Un bisturi usato contro i pazienti

A partire dalla fine dell’800 il numero dei malati di mente è continuamente aumentato. La mancanza di terapie per disturbi gravi come ossessioni, psicosi, demenze, manie, depressioni, schizofrenia, diventò opprimente. Bagni freddi o caldi, elettroshock, più tardi shock insulinici, infezioni malariche per provocare febbroni, ed altre inutili torture erano gli unici trattamenti. Molti ammalati erano ricoverati in cliniche e manicomi (il cui numero crebbe di molto), nei quali si praticava, per gli psicotici agitati, il contenimento in letti e sedie speciali.
Lo psichiatra (non chirurgo) Gottlieb Burckhardt, primario di una clinica nella Svizzera francese, preso dallo sconforto pensò d’intervenire nella causa della pazzia, cioè nel cervello. In un lavoro del 1891 comunicò l’esperienza con sei pazienti operati non per curarli, ma per fare di «dementi irrequieti e violenti dementi tranquilli». Attraverso piccole craniotomie eseguite in narcosi di oppio e cloroformio asportava da varie aree da 2.5 a 14.5 grammi di corteccia cerebrale. Osò molto, perché non asportava tessuto ammalato, come è normale in chirurgia, ma sano: per far posto al cervello, sosteneva, che così non avrebbe più causato escandescenze. Due pazienti morirono (uno d’emorragia, l’altro forse suicida), uno diventò epilettico, in tre le follie allucinatorie migliorarono.
In questo rapporto, molto prolisso, le informazioni circa le condizioni post-operatorie sono quanto mai corrive, caratteristica che la letteratura psiconeurochirurgica manterrà fino alla fine, negli anni ’70. Nessuno seguì l’esempio dello psichiatra svizzero fino al 1936, anno alla pubblicazione, divenuta leggendaria, del neurologo e uomo politico di Lisbona Edgar Monitz sulle virtù di tagli nei lobi frontali (la lobectomia). Il principio che le malattie mentali sono causate da lesioni cerebrali era corretto. Altrettanto fantasiose delle fanfaluche di Burckhardt erano le motivazioni all’intervento: nella parte anteriore del lobo frontale dei malati di mente, vaneggiava Monitz, esisterebbero cellule alterate, l’isolamento delle quali consentirebbe il miglior funzionamento delle aree adiacenti. Psicotici, ansiosi, depressi, agitati, schizofrenici ne trarrebbero giovamento.
Il primo intervento, eseguito dal neurochirurgo Almeido Lima su istruzioni di Monitz, consistette nell’iniezione d’alcol nella parte anteriore del lobo frontale, poi si optò per quattro incisioni della sostanza bianca sotto la corteccia per ogni lobo frontale. L’intervento, la lobectomia, ebbe diffusione immediata nel mondo. Il neurologo americano Walter Freeman entrava nei lobi frontali con uno strumento appuntito attraverso il tetto delle orbite. L’intervento durava una ventina di minuti e l’instancabile neurologo ne eseguiva molti al giorno. Ci furono complicazioni, anche gravi (epilessie, emorragie, infezioni). Non esistono rapporti attendibili sui risultati di simili acrobazie. Gli psichiatri furono, da subito, divisi. Nel 1940 la rivista di New York Med. Rec. (151, 335,1940) invitò i chirurghi «mutilatori» al rispetto del giuramento di Ippocrate di perseguire solo la salute del paziente. Nel 1949, quando l’insania della sua bella idea era già evidente, Monitz ricevette il premio Nobel. Nel 1962 per uno psichiatra la psicochirurgia era «il miglior trattamento» e per un altro «una barbarie» (The Lancet 17.XI.1962). Non i magri risultati e le complicazioni, ma la farmacologia portò alla fine della psicochirurgia negli anni ’70.
Il libro di Luke Dittrich traccia la storia di uno dei capitoli più imbarazzanti della medicina raccontando le imprese del neurochirurgo statunitense William Beecher Scoville, instancabile esecutore di lobectomie, specie in schizofrenici. L’autore è il nipote per via materna del neurochirurgo. Anche se è una postuma resa dei conti col nonno, disprezzato come medico e detestato come uomo, il libro offre un materiale imponente sul tema etico della chirurgia: nel caso di un’operazione mai eseguita prima, quand’è giustificato il passaggio dalla riflessione, dall’esperienza in laboratorio e sugli animali, all’uomo? La disinvoltura con la quale fu eseguita per anni, senza considerare i risultati, un’operazione rischiosa ed inutile, è paragonata da Dittrich agli esperimenti che i medici nazisti di Dachau facevano sugli internati nel campo di concentramento per studiare la loro resistenza al freddo, al caldo e ad altre condizioni estreme, fino alla morte.
L’incoscienza di Scoville raggiunse il massimo col paziente H.M., operato nel 1953 all’età di 27 anni non per schizofrenia, ma per epilessia: senza aver localizzato il focolaio epilettico, senza aver visto, all’intervento, nulla di sospetto, senza conoscere la funzione dell’ippocampo, lo asportò per intero e bilateralmente, amigdale comprese. Tolse al pover’uomo completamente e per sempre la memoria episodica e l’affettività, per cui non ebbe mai esperienze di gioia, felicità, amore. Un anno dopo, Scoville, secondo il nipote ignorante e arrogante, previde che, con interventi del genere, sarebbe stato possibile evitare i medicamenti antiepilettici (J. of Neurosurg. 11,64-66,1954).
Lo scarso autocontrollo di Scoville è confermato da un aneddoto curioso. Nel 1958 decise di acquistare un’automobile da competizione, e per questo andò a Maranello da Enzo Ferrari, che non vendeva vetture senza aver valutato le capacità di guida dell’acquirente. Dopo un viaggetto di mezz’ora nelle colline attorno a Modena, Ferrari fu categorico: «Se le vendessi questa macchina, lei fra nemmeno un anno sarebbe morto». Il nonno s’accontentò di una Mercedes.
Il senso di raccontare la vicenda della psiconeurochirurgia è di sottolineare con un esempio estremo il problema etnico e tecnico delle nuove operazioni: se e quando sono lecite, quando eseguirle, e come controllarne i risultati. Ciò, non ci si illuda, in diversi campi ancora non avviene, o non avviene con disciplina. Basta leggere riviste scientifiche serie per averne conferma.
ajb@bluewin.ch
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Luke Dittrich, Patient H.M. A Story of Memory, Madness, and Family Secrets, Chatto & Windus London (UK),
pagg. 440, €32