Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2018
Se questo è un uomo. L’esistenza di una zona grigia tra coscienza minima e il nulla dimostrata attraverso stimoli ai pazienti in coma
La legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, licenziata dal Parlamento a metà dicembre, è una conquista di civiltà in materia di diritti civili per i cittadini alla fine della vita. Ma non è più del minimo sindacale. Perché lascia fuori un diritto non meno fondamentale, per il quale l’autodeterminazione non può non includere la disponibilità della propria vita per chi scelga di interromperla (naturalmente stabilendo l’autenticità della decisione), cioè di rinunciarvi, se continuare a vivere comporta sofferenze fisiche e psicologo-morali insopportabili secondi i propri valori. Serve una legge che autorizzi e regolamenti il suicidio medicalmente assistito, come in Svizzera, Oregon, Vermont, etc. Sarebbe un definitivo progresso civile. L’eutanasia in senso proprio, quella dove il medico somministra direttamente un farmaco letale, è alla portata di culture morali coraggiose e individualiste; non è per paesi imbrigliati da un’etica comunitaria e ipocrita. Come l’Italia.
È probabile che la legge da poco approvata ridurrà il numero di individui che in futuro rischieranno di entrare e rimanere per anni nel tunnel di un disturbo protratto della coscienza. In Italia non sappiamo quanti siano questi pazienti, si parla da 2800 a 3300 (6 ogni 100mila abitanti, ma è una stima difettosa). Fatto sta che in Olanda, dove è possibile chiedere l’interruzione dei trattamenti ed è legale l’eutanasia da decenni, sarebbero 0,2 ogni 100mila abitanti (circa 30). Una stima fatta in Gran Bretagna e diffusa dalla BBC valuta in 150mila sterline all’anno il costo di questi pazienti a carico del servizio sanitario e dei parenti. Insomma è anche un business per numerose strutture a gestione religiosa. E ci vuole una dose non comune di cattiveria ed egoismo, che accomuna quasi sempre religiosi e familiari, per costringere degli esseri umani a entrare e rimanere in una condizione mentale grigia e sconosciuta, piuttosto che lasciarli decidere in modo autonomo.
Dal 2006 si sa che alcuni, pochissimi, tra questi pazienti con disturbi gravi della coscienza a causa di traumi o ictus possono rispondere, rimanendo immobili e muti, a domande o a stimoli specifici somministrati intenzionalmente. Queste risposte si possono osservare mettendoli dentro a una macchina radiologica, come la PET e la fNMR e guardando cosa fa il cervello a fronte dello stimolo.
Il primo a comunicare con loro, usando diverse tecniche e strategie è stato Adrian Owen, un neuroscienziato canadese che ha dimostrato l’esistenza di una zona grigia tra coscienza (minima) e nulla. Sulla sua straordinaria avventura ha scritto un libro molto bello, dal punto di vista della fattura narrativa e della comprensibilità, anche se non sempre tiene distinta la dimensione dei dati e delle ipotesi esplicative, da quella soggettiva o emotiva.
Il libro si snoda intorno alle biografie personali e familiari di pazienti comatosi e all’ex-fidanzata, colpita da un ictus cerebrale che l’ha ridotta in coma e che poi è morta. L’idea geniale di Owen è stata di stimolare alcuni di loro, che si sospettava avessero qualche contatto con l’ambiente malgrado la diagnosi neurologica dicesse il contrario (ma le diagnosi neurologiche dei disturbi di coscienza si stima che siano sbagliate in più delle metà dei casi), collocandoli dentro un apparecchio che visualizza l’attività metabolica del cervello. In pratica chiedeva loro di immaginare cose che consentissero di vedere specifiche aree accendersi, cioè consumare più glucosio, le quali risultavano le stesse che si sarebbero accese in un cervello sano a fronte degli stessi stimoli/domande.
Così, per esempio se il paziente immagina una partita di tennis si attivano aree che sono diverse che se immagina di camminare in un ambiente conosciuto, come la propria casa. Una volta stabilito il contatto, si è assegnato il valore di «sì» e di «no» rispettivamente alla partita di tennis e al camminamento in casa propria, e sono state fatte domande specifiche per capire se ci fosse davvero «qualcuno» dentro al corpo immobile, se quel «qualcuno» fosse la stessa persona anagrafica di prima del danno cerebrale, se provasse dolore, etc.
Owen è stato chiamato dal governo israeliano per provare a comunicare anche con Ariel Sharon, quando era in coma. Uno dei pazienti ha risposto che non provava dolore. È stato chiesto se desiderava che si mettesse fine alla sua vita, ma non c’è stata risposta. Tra le persone esaminate da Owen un paio sono in seguito uscite dal coma.
Naturalmente i vitalisti e religiosi a oltranza hanno voluto vedere in queste scoperte la prova che il concetto di morte cerebrale non ha fondamento, in quanto costoro pensano che qualsiasi fiammella metabolica rilevabile nel cervello sia il segno che si è davanti a una persona. È una tesi ridicola e avrebbe quale unica conseguenza di ridurre ulteriormente i donatori di organi da trapiantare. Ognuno può credere quello che vuole. Ci mancherebbe. Il fatto saliente è che nessuno sa dire cosa si può arrivare a provare quando una parte delle strutture anatomiche che producono dinamicamente la coscienza smettono di funzionare in modo coordinato, ovvero quando l’unitarietà dell’esperienza si frammenta, perdendo pochi o molti componenti delle reti nervose che integrano i dati ricavati dagli stimoli.
Alcuni farmaci e droghe causano forse qualcosa di simile, che non è per niente piacevole. E potrebbe anche somigliare a quello stato di disorientamento, incapacità di integrare gli stimoli e ansia soffocante, che dura una decina o più di secondi e che ci assale quando ci svegliano di soprassalto da un sonno profondo.
Non vorrei mai conoscere cosa si prova ad avere un disturbo della coscienza. Non solo non vorrei trovarmi locked in o in stato di coscienza minima, ma nemmeno apparentemente in stato vegetativo persistente, con medici e persone che mi manipolano (medicalmente) come se fossi privo di qualunque sensibilità e capacità di comprendere, mentre magari l’ictus o il trauma mi hanno lasciato sprazzi di accesso al mondo dell’esperienza che però non si riesco a integrare in una forma coerente e a comunicare. Un incubo! A fronte del paziente che non provava dolore, ve ne era uno che risvegliatosi ha detto di aver sentito tutto quello che i medici gli facevano senza sedazione. È la cosa più orribile che si possa immaginare. E può durare anni.
Queste ricerche si collegano alla questione del profilo mentale e psicologico delle demenze. Nelle demenze il cervello degenera anatomicamente, e quindi la personalità e le funzioni cognitive cambiano o spariscono. Ma come cambiano e cosa si sostituisce a quelle che svaniscono? È pura malvagità lasciare che l’egoismo dei familiari e l’indifferenza dei medici costringa a subire la distruzione della mente, quindi della persona, invece di lasciar decidere e aiutare a mettere fine alla vita in quel frangente.
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Adrian Owen, Into the grey zone. A neuroscientist explores the borders between life and death, Scribner, New York, pagg. 305, $28