Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2018
L’intelligenza artificiale che verrà. Le macchine imparano a riconoscere e replicare
«Anche i robot hanno le loro giornate no», ha commentato, tra il seccato e l’imbarazzato, il vicepresidente di una grande azienda coreana di fronte alla scena muta del robot che stava presentando qualche giorno fa sul palco del Ces di Las Vegas. Il 2018 si annuncia però assai più movimentato sul fronte dell’intelligenza artificiale. Le grandi aziende americane come Microsoft e Amazon hanno annunciato accordi per permettere ai loro assistenti virtuali, Cortana e Alexa, di dialogare seguendo l’utente (e i suoi dati) in un’esperienza molto più completa.
In Europa è un fiorire di startup come la spagnola EyeSynth, che propone un sistema acustico in grado di aiutare i non vedenti a esplorare l’ambiente circostante o la norvegese della Wheel.me, che hanno messo mini-ruote intelligenti a mobili e macchinari sviluppando una nuova dimensione dell’industria 4.0. L’Europa, in particolare, sembra pronta a una nuova primavera digitale proprio grazie al “deep tech” cioè l’applicazione industriale dei risultati della ricerca di frontiera come ha sottolineato l’ultimo report dei venture capitalist di Atomico lo scorso dicembre.
«Andiamo verso una simbiosi professionale tra l’uomo e i sistemi di Ia – osserva Ken Moulvany, Ceo di BenevolentAI, l’azienda britannica che sta applicando sistemi di Ia alla ricerca scientifica valutata 1,7 miliardi di dollari –. Una delle grandi sfide che abbiamo dopo la decodifica del genoma è, per esempio, capire cosa fanno esattamente gli oltre 25mila geni che lo compongono. E questo è solo l’1% del nostro Dna perché poi c’è il”bioma”, l’insieme genetico di tutti i microrganismi che abitano il nostro corpo. L’Ia è indispensabile per capire come tutto questo interagisce e per espandere le capacità umane».
La collaborazione sempre più stretta tra lavoratori in carne e ossa e intelligenze artificiali non più solo sul fronte produttivo, ma anche al livello decisionale dei colletti bianchi è, non a caso, uno dei trend tecnologici emergenti individuati anche dagli analisti di Forrester nel loro report The Top 10 Technology Trends To Watch: 2018 To 2020. L’altro trend cruciale individuato da Forrester sul fronte dell’Ia è che i software saranno sempre più capaci di imparare a imparare. Un esempio è l’AlphaGo di Google-DeepMind al quale è bastato dare in pasto le regole del gioco di Go perché imparasse a battere il campione mondiale Lee Sedol. Vedremo perciò l’espansione delle ricerche sul fronte del machine learning multimodale, delle piattaforme di deep-learning e dei sistemi di riconoscimento delle emozioni, della gestualità e dell’analisi e produzione di linguaggio naturale che daranno macchine sempre più in grado di interagire con noi abbandonando interface come schermi e tastiere.
Nei prossimi due anni i progressi saranno notevoli, ma non c’è da aspettarsi miracoli. «Il pensiero umano è composto da due parti, come spiega Daniel Kahnemann nel suo Pensieri lenti e veloci – osserva Harri Valpola, cofondatore di Curious Ai, la startup finlandese che ha appena raccolto quasi 4 milioni di dollari per la ricerca sulle nuove intelligenze –. Il primo è il riconoscimento di azioni e oggetti. In questo il machine learning funziona molto bene ed è molto rapido. Il secondo è quello del pensiero intenzionale. È quello che ogni umano fa quando si confronta con una situazione non interpretabile con regole o abitudini già formate. Le reti neurali sono una strada come mostra il caso di AlphaGo, ma la capacità di pianificare è ancora bassa». Un’altra grande frontiera, secondo il 44enne finlandese è il pensiero simbolico, sul quale le macchine ancora faticano: «Credo vedremo molti avanzamenti su tutti questi fronti e avremo macchine molto più autonome – osserva Valpola –, ma la singolarità, che vede una completa indipendenza della macchina dall’uomo è lontana. Quello che possiamo aspettarci è qualcosa che si avvicina al cervello di un mammifero come funzionamento».
Il fronte sul quale lavorare non è però solo tecnologico. «Una recente indagine ha mostrato che in Usa il 40% della persone pensa che l’Ia possa essere un problema, mentre il 60% non se ne proccupa – osserva Jaan Tallin, uno dei fondatori di Skype e Kazaa che ha investito in DeepMind –, ma è come dire che se suona un allarme antincendio e la maggioranza non se ne preoccupa, il fuoco non esiste. Dobbiamo promuovere una maggiore sicurezza di questi sistemi perché credo che nei prossimi 25 anni dovremo davvero confrontarci con alcune forme di singolarità».
Insieme a una maggiore attenzione sociale per la cybersecurity, va inoltre sviluppato un intero ecosistema europeo. «Sull’intelligenza artificiale si gioca una partita sia di coesione sociale che di competitività economica – ha osservato nel suo keynote allo Slush Festival di Helsinki, Mounir Mahjoubi, il ministro per il digitale del governo Macron –: lo scorso settembre sette francesi su dieci hanno dichiarato che sono disposti a rinunciare ai servizi digitali se compromettessero la loro privacy. Dobbiamo perciò essere inclusivi e il Gdpr, la direttiva europea sulla protezione dei dati che entrerà in vigore a maggio sarà una tappa importante perché rende ogni paese responsabile dei dati di ogni cittadino. Sul fronte dell’Ia ci vuole un forte investimento pubblico che funzioni da leva per quelli privati. Lasciare questo campo solo alle aziende private è troppo rischioso».