il Giornale, 15 gennaio 2018
Paolo Rosi tra mete, volate e pugni. La voce di velluto della Tv
Adesso che ci manca da tanto tempo glielo possiamo anche dire, senza farlo arrabbiare come quelli che gli versarono addosso un caffè sul vestito di lino, come quel collega che discuteva sul ghiaccio nel whiskey: caro Paolo Rosi quando sentiamo urlare i cronisti della televisione di oggi, quelli che fingono di sapere tutto e, in realtà, sanno poco, ci viene in mente la sua voce, quella di un grande al servizio dell’immagine. Era velluto. Era classe. Una finta a destra e una a sinistra, come quando giocava a rugby e segnò una meta agli inglesi persino a Twickenham, perché lui per primo sapeva che la felicità professionale stava nella conoscenza dei propri limiti, amandoli.
Quando siamo sfiniti dal berciare televisivo andiamo a prendere il bel libro che Federico Meda ha scritto su di lui, grande trequarti centro, sublime raccontatore di imprese sportive dall’atletica al pugilato, il suo diretto sulla vita, finendo, naturalmente all’amatissimo rugby che lo ha visto campione d’Italia con la maglia bianconera di Roma nel 1948 e 1949, unico azzurro fra i barbari europei per giocare contro gli inglesi nel loro tempio e ai mondiali del 1987 fu il nostro Virgilio per la prima edizione non tanto fortunata degli azzurri alla massima rassegna con la palla ovale in Nuova Zelanda dove il Giornale aveva voluto esserci. Fu proprio su quel campo che segnò la meta più importante e quando gli chiesero come aveva fatto ecco il titolo del libro: una finta a destra, una sinistra. Che tempi. Che giornate.
Siamo stati con lui in tanti viaggi. Si litigava per poi abbracciarsi, mentre il fidato Monets, l’ex velocista Attilio Monetti, preparava le telecronache, aggiungendo cifre, scoprendo storie, per aiutarlo in dirette che erano velluto pregiato. Non amava le cene affollate, tormentava il suo fegato che poi lo ha tradito, quando aveva 73 anni, alla fine del mese di aprile nel 1997, ma quando riuscivi a sederti al suo tavolo era felicità. Sapeva raccontare, senza mai sbrodolare. Eravamo con lui nelle notti del caviale proibito a Mosca, Olimpiadi bistrattate dalla politica nel 1980, gli ori di Mennea sui 200 e di Sara Simeoni nel salto in alto. Li amava davvero quei campioni, così come quelli dei suoi primi Giochi in diretta televisiva, quelli del 1960, sono nove le Olimpiadi che ci ha raccontato, aveva cominciato come radiocronista a Melbourne 1956, nella Roma amatissima del rugby e del tennis senza prigionieri, nei giorni in cui alla Rai lo avevano messo un po’ da parte, come fanno spesso con i più bravi che non hanno padrini, leggero come il Berruti dei due record mondiali e dell’oro olimpico.
Così come era davvero coinvolto quando il ragionier Cova ha tagliato per primo il traguardo sui 10mila ad Atene, Helsinki e Los Angeles. Trittico delle meraviglie. Europeo, mondiale, oro olimpico. Gli piacevano i puzzapiedi della marcia come Damilano lui che aveva amato Pamich e Dordoni, ha passato una notte a brindare con l’ambasciatrice italiana che stravedeva per Gelindo Bordin, vergognandosi un po’ per aver detto in diretta, al campione di maratona olimpica in Corea, «Gelindo raccogli la nostra supplica», nel momento in cui sembrava che il campione allenato dal maestro Gigliotti avesse smarrito la ragione poi ritrovata seguendo Nazareno Rocchetti, fisioterapista diventato poi famoso come pittore e scultore.
Erano notti senza fine, quelle coreane. Dal risveglio notturno per l’esercito dei giornalisti confinato nel villaggio stampa di Seul quando trovarono positivo Ben Johnson mandando all’aria il lavoro di ricostruzione della sua finale vinta sui 100 contro Carl Lewis. Lui sapeva ascoltare, così come capiva il vento gelido delle Highlands scozzesi. Se eri depresso ti diceva che nessuna sofferenza era pari a quella che aveva tormentato la sua vita professionale quando la vittoria mondiale di Nino Benvenuti contro Griffith era stata tradita dalla televisione e trasmessa soltanto per radio con la voce di Paolo Valenti. Ecco. Il pugilato, dopo il rugby, un mondo che sapeva esplorare anche nelle giornate più nere come quella di Bellaria, il 19 luglio 1978, europeo dei pesi medi, quando Angelo Jacopucci cadde sotto i colpi dell’inglese Alan Minter e non si risvegliò più.
Sapeva dirti tutto di Patrizio Oliva, Francesco Damiani, del suo quasi omonimo Gianfranco Rosi, ma prima dovevi litigarci un po’. Uno spasso perché in cambio pretendeva di sapere come avevi trovato certe notizie su Nebiolo, sull’atletica bombardata della Ddr. Era bello ascoltare le storie rugbistiche di questo romano di Castro Pretorio, nato il 30 aprile 1924 nello stabile dove il padre era il portinaio, con origini trevigiane, da quelle fratello Manlio che lo portò sui campi con le porte ad acca, all’esordio fra le riserve della Rugby Roma nel 1941, alla pleurite, al tormento prima di riscoprire la palla ovale con la Goliardica per poi trovare l’Olimpic e infine riunirsi alla casa madre con cui vinse i due scudetti, fino alle 12 presenze in Nazionale. Ci manca. Ma non lo dimenticheremo mai questo ragioniere che da Banco Santo Spirito entrò in Rai per concorso, perché era bravo e non raccomandato.