il Giornale, 15 gennaio 2018
Il processo sull’amianto che fa tremare l’Ingegnere
Andrebbero riletti gli straordinari articoli che su Repubblica il suo (allora) direttore Ezio Mauro dedicò al rogo dell’acciaieria Thyssen a Torino, scavando a fondo nel rapporto perverso tra impresa e profitto, tra lavoro manuale e tragedia: tra spregiudicatezza imprenditoriale e crimine. Andrebbero riletti per capire a fondo lo psicodramma che agita oggi Repubblica, caso senza precedenti di un quotidiano che scarica brutalmente il suo editore: Carlo De Benedetti, l’uomo che ventisette anni fa salvò il quotidiano di Scalfari dalle grinfie di Silvio Berlusconi, e da cui oggi la direzione prende platealmente le distanze.
Cosa c’entra la Thyssen? C’entra. Perché se la strage degli operai dello stabilimento torinese – nella notte tra il 6 e 7 dicembre 2007 – dell’azienda tedesca fu un capitolo terribile del dispregio delle norme di sicurezza, ancora più terribile e catastrofica fu la strage silenziosa che si consumò in un’altra azienda: l’Olivetti di Ivrea. E per cui tra una manciata di giorni affronterà il giudizio d’appello proprio il «presidente onorario» di Repubblica: Carlo De Benedetti.
L’Ingegnere è stato condannato in primo grado a cinque anni di carcere per omicidio colposo plurimo. Ora è stato fissato il processo d’appello: 7 febbraio, a Torino. È questa comunicazione, notificata nei giorni scorsi al suo difensore Giuliano Pisapia, a turbare davvero i sonni di De Benedetti. Perché è l’ultima chance di dimostrare nel merito la sua innocenza, convincere i giudici di non avere saputo nulla dell’amianto che giorno dopo giorno ammazzava operai e impiegati della gloriosa fabbrica di Ivrea. Poi, solo l’esile schermo della Cassazione lo salverà dalla condanna definitiva, dalla prospettiva di passare alla storia non come un maestro dell’etica politica, non come un grande editore né come un consigliere e facitore di ministri e di premier ma più banalmente come un assassino di operai. Un capitalista-squalo da caricatura di Grosz.
Anche per questo De Benedetti è nervoso, e anche questo forse ha spinto Mario Calabresi, direttore di Repubblica, a spiegare ai suoi lettori che il giornale non ha nulla a che fare con gli affari privati del suo presidente onorario: né quando si faceva passare dal presidente del Consiglio informazioni riservate su cui speculare in Borsa; ma neppure quando, in nome del profitto – così sta scritto nella requisitoria del processo di primo grado – lasciava che la polvere d’amianto, di cui conosceva perfettamente la presenza e gli effetti, ammazzava i dipendenti che avevano la sventura di lavorare per lui. Nella fabbrica che il suo fondatore Adriano Olivetti aveva immaginato come azienda simbolo di un capitalismo umano e responsabile, e che invece sotto la gestione di Carlo De Benedetti (e di suo fratello Franco, condannato insieme a lui) si trasformò in una specie di mattatoio.
La speranza dell’Ingegnere era forse che i tempi lunghi della giustizia diluissero il caso, lo spostassero verso il limbo della prescrizione. Invece la Corte d’appello di Torino, pur ingolfata di processi, ha deciso di fissare il processo. E sul giudizio che si apre il 7 febbraio incombono come magli le motivazioni della sentenza di primo grado e le perizie del tribunale, che dimostrano come davanti a concentrazioni di amianto cinquanta volte superiori ai limiti di legge, l’Olivetti di De Benedetti non fornisse agli operai nemmeno una mascherina di protezione. Nei diciott’anni passati alla guida dell’azienda di Ivrea, l’Ingegnere girò gli occhi dall’altra parte. La sentenza che affronta il giudizio di secondo grado attribuisce De Benedetti sette morti: ma il totale, nei fascicoli ancora aperti, raggiunge la cifra di ottantacinque. Un editore scomodo, per il giornale dei diritti civili.