la Repubblica, 15 gennaio 2018
L’arte di raccontare il mistero dell’istante
Qualcuno risponderà Lorrie Moore, qualcuno Lucia Berlin. Chi non ha particolare devozione per il realismo minimalista a cui il racconto americano sembra tendere in maniera quasi inerziale, almeno nella memoria di breve termine, farà il nome di scrittrici come Flannery O’Connor e Shirley Jackson per vendicarsi della tradizione grottesca e fantasmagorica. Avranno tutti a loro modo ragione. Tutte queste persone, tuttavia, avranno perso qualcosa, perché non hanno mai detto o pensato Joy Williams.
Come fa l’Italia a scoprire ciò che l’America stessa non ha mai capito o svelato bene – adesso ci provano le Edizioni Black Coffee con la raccolta L’ospite d’onore –, dopo aver trasformato Joy Williams in una specie di figura post-mortem che ha tutto il culto che riserviamo agli assenti, soprattutto quando non abbiamo fatto abbastanza per riconoscerne il talento? Ma Joy Williams è ancora viva, da qualche parte in Florida o in Arizona, con i suoi occhiali da sole graduati sempre addosso che a volte fanno chiedere alle persone se sia cieca.
Forse il culto che la riguarda non è tanto quello della Grande Esclusa, ma quello di una religione che prevede una serie di prove articolate per gli iniziati: leggerla è per molti aspetti un atto di fede, non a caso suo padre ricopriva una carica religiosa e suo nonno era un prete battista. È quello che intende dire Don DeLillo quando sostiene che la scrittura di Williams somiglia molto al passaggio delle lettera ai Corinzi che l’autrice ha scelto come epigrafe per questa raccolta di storie scritte in un arco di quarant’anni (Williams oggi ne ha 73): «Ecco, io vi annuncio un mistero: non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio…». In questo battito d’occhio che Williams mette sulla pagina succede di tutto: ci innamoriamo, perdiamo una madre, usciamo per sempre dall’infanzia, e l’estate torna a essere quella stagione in cui ci sono «più lacrime nei bar e più meduse nel mare». Non tutti siamo propensi a questo disorientamento – a tratti la leggiamo e ci feriamo e non sappiamo neanche come è successo – ma sono davvero poche le scritture che possono renderci diversi, e anche solo per questo L’ospite d’onore merita di essere letto, tirato contro il muro, riaperto in una fitta acuta di gioia, trascritto su dei pezzi di carta da sigillare in un messaggio segreto come facevamo con le persone che ci piacevano a scuola, sperando che qualcuno li ritrovi e sappia condividere la nostra passione.
Nel corso della sua carriera fatta di romanzi e storie brevi, Joy Williams si è guadagnata un tenace rispetto: i suoi racconti vengono insegnati in tanti corsi di scrittura creativa, nonostante infrangano quasi tutti i precetti su cui questi corsi sono basati. È facile immaginare un docente che, imbattendosi in una giovane Williams, si ritrova a riempire i suoi racconti di annotazioni frustrate: «Questo personaggio è privo di scavo psicologico», «Perché ogni volta che appare un animale qualcuno muore?» e «Ma non possono parlare come persone normali?». Ma i dialoghi di Williams sono uno degli aspetti più importanti della sua scrittura.
In apparenza ricordano le conversazioni assurde tra i protagonisti dei film di Yorgos Lanthimos, da The Lobster a The Killing of the Sacred Deer, forzati in una cornice realistica, ma la differenza è che per lei le parole servono a poco: l’esorcismo non si compie, il discorso serve a prendere tempo con la morte o qualche altro fenomeno ineluttabile. Di solito la trasformazione avviene altrove, affidata al paesaggio o alle creature silenziose che lo abitano.
Joy Williams non è una scrittrice marginale, nonostante si occupi quasi sempre di margine e di eccedenze della vita, di vere e proprie escrescenze sentimentali che si manifestano all’improvviso all’interno di una famiglia o di una coppia. Non fa niente secondo le regole, e proprio per questo i suoi racconti sono indimenticabili: non sappiamo come disciplinarli, sono subdoli come un’infezione e hanno la stessa struttura associativa dei sogni, tradotti nella lingua banale degli amanti.
In racconti come Il matrimonio, per esempio, quella che potrebbe essere la storia di una relazione venata di incomprensione diventa il numero di un prestigiatore che decide di sparire dietro una nuvola di fumo per lasciare il pubblico in preda al dubbio: «Sam ed Elizabeth si sono conosciuti come si conoscono tutti: all’improvviso una luce ingannevole appare nell’oscurità», scrive l’autrice, e al lettore sospeso nella propria incredulità, quando i due personaggi fluttuano dalla finestra per spiare tutti coloro che non hanno trovato l’amore, deve bastare questo. Sam ed Elizabeth si sposano, devono volersi bene, ma allora perché quando lei gli dice che lo ama lui risponde: «La vita è un bizzarro privilegio?». È perché Williams vuole dirci che quella luce ingannevole resta tale per tutta la vita e che per noi quanto per i suoi protagonisti arriva un momento in cui il sentimento verso l’altro e il rischio che abbiamo assunto torna a essere soltanto un dubbio.
A questa scrittrice ingovernabile interessano tre cose: i riti di passaggio, l’adattamento e la morte. In questo è in buona compagnia di tanti scrittori americani, ma pochi hanno la sua onestà nell’affrontarli. Nel bellissimo L’ospite d’onore, una madre e una figlia si preparano alla perdita: «In principio la morte aveva dato loro l’opportunità di essere interessanti. Era una cosa speciale. In pochi potevano capire. Ma ben presto avevano perso di vista questa cosa speciale, che era diventata sempre più piccola e inquietante e il cui significato si era ormai ridotto in briciole. Avevano cominciato a dare importanza all’attesa. Ed era stata la fine».
La letteratura di Joy Williams, come un culto efficace, serve ad amministrare l’attesa e non a fornire una consolazione per la fine: in qualche modo, leggendola, anche la fine scompare, perché alla lunga niente è compatibile con la vita. Neanche il suo contrario.