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 2018  gennaio 14 Domenica calendario

Arcimboldo delle meraviglie

Pare impossibile, ma quella che si tiene in questi giorni, fino all’11 febbraio a Palazzo Barberini, è la prima mostra romana dedicata ad Arcimboldo, l’artista milanese vissuto nel Cinquecento, la cui fama fu rilanciata dai surrealisti, che lo elessero a loro precursore, dando la stura a un lungo ciclo di mostre, di cui fu prototipo, nel 1987, la veneziana Effetto Arcimboldo. In esse, gli strabilianti ritratti composti da assemblaggi di frutti, fiori e oggetti, divennero poco più di un pretesto per innescare pindarici voli tra passato e presente, con spericolati parallelismi tra le sue metamorfiche destrutturazioni del corpo umano e quelle operate dal Cubismo o dalla Metafisica: con il risultato di estraniare Arcimboldo dal contesto tardomanieristico di provenienza, rendendolo più astruso e oscuro di quanto non sia. Esaurito questo ciclo di rassegne metastoriche, si è tornati finalmente a radicare Arcimboldo nel suo tempo e la mostra romana si segnala proprio perché si concentra su questo compito, esponendo una ventina di suoi capolavori (dunque quasi l’intero catalogo giunto fino a noi) e facendoli dialogare con trattati, opere d’arte e manufatti che ne chiariscono i precedenti e la genesi.
La parabola di Arcimboldo (1526-1593) si divide in tre fasi: inizia a Milano, dove resta fino al ’62, quando si trasferisce alla corte degli Asburgo, restandovi un quarto di secolo, tra Vienna e Praga, al servizio di tre imperatori: Ferdinando I, Massimiliano II e Rodolfo II; infine, gli ultimi sei anni, quando torna in patria, ormai artista di fama europea, ma ancora attivo per Rodolfo II, che lo gratifica del titolo di conte palatino. Figlio d’arte, Giuseppe Arcimboldi si formò presso suo padre, Biagio, che affiancò per un decennio nella realizzazione di cartoni per vetrate e arazzi per la Veneranda Fabbrica del Duomo. Ma ben presto si mise in proprio, distinguendosi per una più audace ed estrosa inventiva, riflesso di una curiosità inesauribile che lo spingeva a frequentare letterati e a esplorare il lascito di Leonardo, trovandovi spunti nelle direzioni più varie: dalla fisiognomica alla caricatura, dalla creazione di costumi e coreografie all’illustrazione scientifica di fauna e flora. Ma Milano era anche il più industrioso laboratorio di prodotti di lusso contesi a suon di zecchini dalle corti europee: intagli di pietre dure e cristalli di rocca, armature da parata e altri preziosi manufatti che venivano golosamente accumulati da regnanti appassionati di alchimia e astrologia nelle wunderkammern dove, accanto alle rarità della natura e alle meraviglie esotiche, si custodivano i prodotti di artisti dalla tecnica sbalorditiva. Ed è in questo contesto di una strenua sfida virtuosistica, in bilico tra realtà e finzione, natura e artificio, che acquistano pieno senso le stupefacenti “teste composite” di Arcimboldo, dipinte con la maniacale evidenza illusiva di una tecnica prodigiosa che si serviva di pennelli di pelo di martora e della lente d’ingrandimento, o le sue non meno sorprendenti “teste reversibili”, nature morte che, se rovesciate, si rivelano come argute caricature. Geniale mescolanza tra la tradizione del naturalismo lombardo e il robusto realismo di certa pittura fiamminga e olandese, queste opere mescolano ritratti imperiali a soggetti popolareschi, con un mix di alto e basso forgiato in piena sintonia con la vena burlesca di poeti, scrittori e artisti come Lomazzo, Figino e Morigia, sodali di Arcimboldo e fondatori dell’Accademia di Val di Blenio, che verseggiavano in rabisch, la lingua degli umili “facchini” scesi dalle valli ticinesi, ma erano pronti ad essere assunti a corte, come lo fu Giovan Battista Fonteo per tramite di Arcimboldo, nel ruolo di iconografi di fiducia dell’imperatore.