la Repubblica, 14 gennaio 2018
Io tra Mozart e Totò. È tutt’un’altra lirica. Intervista a Marco Tutino
Suo padre era un appassionato di Beethoven e Vivaldi, il cugino del papà il noto compositore d’avanguardia Niccolò Castiglioni. Ma lui amava i Beatles e Bob Dylan. Sedotto dal folk, s’improvvisò cantautore senza successo («Onestamente ero una schiappa, il mio impresario una sera mi scaricò in una balera della bassa lombarda» ). Infine, sedotto da Verdi, coltivò l’idea, folle per quegli anni, di ringiovanire la lirica scrivendo opere contemporanee, accettando le etichette di neo- tonale e neoromantico non come una condanna ma come una benedizione. Il racconto dello “scismatico” percorso del compositore Marco Tutino (Milano, 1954) è avvincente come un romanzo, raccontato nell’autobiografia Il mestiere dell’aria che vibra, un libro che ogni studente di conservatorio dovrebbe mandare a memoria. Tutino è il più richiesto compositore italiano, più che mai dopo il trionfo de La ciociara ( Two women il titolo inglese) all’Opera di San Francisco, replicato a Cagliari con altrettanto successo a fine novembre. Ma il percorso non è sempre stato così agevole, nonostante i successi del Requiem per le vittime della mafia ( il cardinale Ruini lo rimproverò per aver scelto la tipologia del Requiem precedente alla riforma della liturgia attuata dal Concilio Vaticano II) e le molte opere di ispirazione neoromantica come La Lupa, Senso e Le braci. «L’arroganza nei miei confronti all’epoca è stata terribile», mormora Tutino, che sta allestendo la nuova opera, Miseria e nobiltà (tratto dalla commedia di Eduardo Scarpetta del 1888), dal 23 febbraio al Teatro Carlo Felice di Genova. Il compositore Franco Donatoni, «rispettato e osannato esponente di un’ortodossia avanguardistica pura e dura», lo invitò a cena e sbottò: «Smettila di fare il Don Chisciotte!». Tutino fu irremovibile e il riverito maestro abbandonò il tavolo lasciandogli il conto da pagare. «Non ci siamo più incontrati. Probabilmente aveva visto in me qualcosa che nella vita non era riuscito a fare. E questo lo mandò in tilt».
Sembra che, usciti dal vicolo cieco della musica atonale, ci sia bisogno di tornare a trasmettere emozioni. Un lavoro che lei ha iniziato molto tempo fa.
«In realtà volevo fare la rockstar. Sentivo nell’avanguardia qualcosa di irrisolto e di aprioristico. Non capivo come si potesse applicare all’arte la rigidità di quei “doveri politici”. Nel ’900 ci sono stati anche compositori immensi che per fortuna non la pensavano a quel modo: Stravinskij, Prokofiev, Shostakovich, Britten, lontani dall’avanguardismo a oltranza».
Con “La ciociara” si è ristabilita la cifra dell’opera contemporanea?
«A Cagliari è successa una cosa commovente: l’orchestra è venuta da me a ringraziarmi; mi hanno detto, ma allora si può, c’è una speranza. Certo, si può fare, ma bisogna saperlo fare, porsi dei problemi, studiare, imparare un mestiere. Non è mica semplice, io ho impiegato diciotto opere per capire come si fa. Oggi finalmente sono in grado di coinvolgere il pubblico, che si commuove, si diverte, partecipa».
La stessa tempesta di passioni in “Miseria e nobiltà”?
«No, avevo bisogno di comicità, distacco, ironia. Sono partito dalla commedia di Scarpetta tramandata da almeno tre film ( l’ultimo dei quali con Totò), ma con lo sceneggiatore Luca Rossi e il librettista Fabio Ceresa abbiamo riscritto una storia che ha più elementi di contemporaneità, spostando l’azione dal 1888 ai giorni del referendum monarchia- repubblica del 1946. Ormai lo spettatore vuole uno schermo tridimensionale tra passato, presente e futuro. La vera rivoluzione è riuscire a crearlo, più delle note a pernacchia e degli acuti impossibili».
E la Carmen di Firenze col finale cambiato?
«Non l’ho vista, sembra solo un’operazione di marketing».
Rideranno i detrattori della citazione di Mogol- Battisti nel suo libro, il testo di “Emozioni” accanto a quello di “Der Rosenkavalier” di von Hofmannsthal-Strauss.
«Già, c’è ancora chi divide la musica in categorie. Ho sentito cose meravigliose anche a Sanremo – non spesso, ma capita – e cose orrende nei festival di musica d’avanguardia. Decisi di fare il Don Chisciotte della lirica dopo una folgorante serata alla Scala, l’emozione più forte della mia vita: avevo diciassette anni e non avevo mai assistito a un’opera. Un ballo in maschera di Verdi cambiò le mie prospettive. I compositori, soprattutto quelli politicamente impegnati, ritenevano impuro comunicare. Si creò un partito intorno alla musica, e i partiti agiscono eliminando gli avversari. Pensi al disprezzo riservato a Nino Rota, che ne morì. Era una specie di Mozart, apprezzato per le musiche di Fellini ma massacrato come compositore. Ha scritto opere, sinfonie e concerti per pianoforte non eseguiti per decenni. È logico che il San Carlo non abbia mai messo in scena la sua Napoli Milionaria?. Ho fatto anche il sovrintendente ( del Teatro Comunale di Bologna): con quei signori non si vince. Non c’è nessun interesse al cambiamento».