la Repubblica, 14 gennaio 2018
Il mio topo Quimby contro pollo Trump. Intervista a Chris Ware
Io non credo che l’America sia mai stato un grande Paese. Si fonda sul genocidio e il furto delle terre sotto la bandiera della supremazia bianca. Così Donald Trump non mi stupisce: sembra solo che tutte le galline siano ritornate al vecchio pollaio». Il più grande innovatore del fumetto contemporaneo ha cinquant’anni ed è nato a Omaha, Nebraska: lo stato cantato da Bruce Springsteen nel disco dal titolo omonimo, il più cupo e sperimentale della sua carriera, registrato su un quattro piste voce e chitarra che potrebbe riflettere perfettamente il mood dell’opera di Chris Ware. Una lettura complessa e malinconica ma che vale tutto il tempo che gli viene dedicato: gli stili del suo disegno affondano le radici nella tradizione più nobile del fumetto a partire da quel Krazy Kat di George Herriman che lui definisce «la musica più bella e umana che risuona silenziosamente nella mente del lettore», per restare nella metafora musicale. I libri di Ware sono un mondo: caratteri tipografici diversi e bellissimi, cornici, strip, copertine, racconti nel racconto, umorismo, annunci commerciali falsi, maniacalità ed empatia, solitudine e dolore... In una parola sola: bellezza. Una delle sue opere più importanti, Quimby the Mouse, è finalmente uscito anche in Italia: non c’è niente di scontato in quello che racconta né nel modo in cui lo fa. “Assolutamente incomprensibile” si inventa l’autore in uno degli strilli di copertina. Tutt’altro. E comunque qui c’è la chiave.
Ci sono molte strisce nella storia del fumetto legate a un topo: Ignatz Mouse di George Herriman, Mickey Mouse di Walt Disney fino a Maus di Art Spiegelman. A chi assomiglia di più Quimby the Mouse?
«Le storie violente con gatti e topi protagonisti risalgono a millenni addietro. Ero uno studente dell’Università del Texas quando scoprii un libro nella biblioteca di Storia dell’arte che mostrava i mattoni di una piramide egizia su cui gli schiavi avevano disegnato sé stessi come topi che venivano picchiati da soldati-gatto egiziani».
Quando ha iniziato a disegnare “Quimby”?
«Le prime storie sono nate mentre andavo all’università. Dopo un periodo di circa un anno in cui mi ero trovato a disegnare una lunga serie di strisce senza parole, cercando di fondere il tropos molto americano del “cartoon mouse” nel mio modo di essere in maniera molto istintiva. Questo immaginario è profondamente sepolto soprattutto nella figura di Mickey Mouse, cresciuta nelle caricature degli afroamericani (“blackface minstrelsy”) dei Minstrel Shows in cui venivano raffigurati come pigri, poco intelligenti e così via. Gli americani bianchi avevano l’esigenza di empatizzare con queste persone che stavano deumanizzando e questo veniva fuori spesso come rabbia o addirittura odio contro sé stessi. Questo è visibile principalmente in Krazy Kat: io non volevo emularlo ma semplicemente cercare di capirlo».
Nel suo Quimby invece da dove viene la violenza?
«Ho cercato di pareggiare la violenza che anch’io ho inserito con un uso quasi tipografico di un piccolo topo, una figura della grandezza di una formica che, quando la striscia viene letta senza l’ausilio delle parole, nelle mie speranze, crea una specie di sensazione da “musical” nella mente. Questo per cercare di raffigurare in maniera poetica il mio senso di frustrazione e rabbia per la morte di mia nonna raffigurando anche la casa in cui io l’avevo conosciuta».
Cosa rappresenta invece la striscia di “Sparky” in cui Quimby ha a che fare spesso con la testa staccata del gatto antagonista?
«Il gatto senza testa, anzi la testa senza gatto in stile “gustonesco” ( il pittore Philip Guston spesso rappresenta arti e soprattutto teste, ndr) nella mia mente rappresenta il modo in cui la rabbia soggiace a qualunque tipo di relazione per quanto generosa e piena di amore possa apparire in superficie».
Qual è stato il processo che dalle strisce ha portato al libro? Esistevano già le finte pubblicità?
«Molti dei finti annunci pubblicitari che appaiono in Quimby sono stati realizzati per le collezioni della mia rivista intitolata Acme Novelty Library di metà anni Novanta per controbilanciare con gag loquaci le pretenziose tragedie delle strisce. Questa capacità di gestire commedia e tragedia è qualcosa che noi esseri umani siamo capaci di fare molto bene e che rappresenta due modi diversi di relazionarsi alla vita e all’arte. Per esempio: l’arte è qualcosa che deve guardare ad altro rispetto ai problemi della vita spiccia o deve offrire una simpatetica risonanza a essi?».
Questi deliranti annunci del libro fanno riferimento a reali e truffaldini cataloghi degli anni Ottanta. Ha mai comprato qualcosa da loro da bambino?
«No. Non l’ho fatto. Ma avrei sempre voluto. Un mio amico aveva ordinato gli occhiali a raggi X che non erano altro che due occhiali di plastica con lenti di cartone in cui erano incastrate due linguette tinte di rosso che creavano una illusoria e sfocata duplicazione di ogni oggetto. Comunque con i vestiti delle ragazze non funzionava. Mi ha preparato a una vita di giochini e di bugie che trovo molto contemporanea».
Che cosa significa “Quimby” e quanto c’è di autobiografico in esso?
«Il libro è interamente autobiografico e risente molto del periodo in cui mia nonna stava morendo in un ospizio. Per quanto riguarda il nome, avevo conosciuto una ragazza al liceo che mi disse, che fosse vero o meno, che era rimasta incinta e aveva avuto un bambino che era morto poco dopo la nascita. L’aveva chiamato Quimby».
Da molte storie sembra trasparire un certo odio per i supereroi: a partire dalla striscia iniziale in cui un “superuomo” stacca la testa a Quimby...
«Non è proprio odio: penso più ai supereroi come a un’incarnazione delle relazioni molto americane tra padri e figli».
C’è poi un altro personaggio che ha due teste: che cosa simboleggia?
«Il “Quimby-automa” rappresenta la fine di una relazione, la terza persona invisibile che due persone creano tra loro e che muore quando la relazione finisce».
C’è un ordine da seguire nel leggere le sue storie oppure no?
«No, non c’è. Proprio come non c’è un ordine per conoscere qualcuno o ricordare qualcosa. Uno dei punti fondanti dei miei libri è l’incertezza dell’approccio: non esiste un inizio o una fine, eccetto quelli che ogni lettore decide da sé».
Torniamo a Donald Trump.
«Credo che rappresenti il peggio dell’ignoranza, dell’odio e della naïveté americani, risultato della distruzione quasi totale del sistema dell’educazione pubblica».